“Le Virtù” teramane piatto simbolo del Primo Maggio abruzzese connesso con gli usi dei contadini, con i Romani e il popolo d’Irlanda

C’è chi il Primo Maggio va ad un concerto e chi si fa una zuppa. A Teramo preferiscono quest’ultima. Per comprendere meglio i motivi di questa scelta facciamo un passo indietro per conoscere la storia di questa (onerosa) preparazione. Bisogna sapere che il 30 aprile era considerato dal calendario contadino lo spartiacque tra la fine dell’inverno è l’inizio della stagione feconda. Anticamente, in onore della dea Maja (da cui “maggio”), per propiziare l’abbondanza del raccolto, i contadini facevano un bel rito: ingurgitavano un bel guazzabuglio di carne, legumi e vegetali!

Questa sarebbe l’origine delle “virtù”, la la zuppa tradizionalmente preparata il giorno dell’odierna “festa dei lavoratori”. Alcuni fanno risalire le sue origini addirittura all’antica Grecia. A mio avviso, molto più modestamente, il nome deriverebbe da quel cibo che, in epoca romana, i soldati portavano con loro dentro sacchetti chiamati “Virtutes”. La dieta base del legionario, infatti, consisteva, guarda caso, in cereali, soprattutto grano, carne di maiale o vitello, vegetali e legumi, per lo più lenticchie e fave.

Con un volo di fantasia, le virtù si chiamerebbero così perché dovevano essere preparate da sette vergini utilizzando sette legumi, sette aromi, sette carni, sette verdure e sette tipi di pasta. Il tutto, cucinato in sette ore.

A dirla con la religione, invece, in onore delle virtù cristiane! Pensandoci bene di virtù ce ne vuole per cucinare un piatto che richiede dai sette ai dieci giorni di preparazione senza bestemmiare.

Finito? No. Le “pallottoline” teramane, minuscole polpette di carne, della dimensione di un cece dove le mettiamo? Infine il brodo di carne, in origine preparato con quell’osso di prosciutto dimenticato appeso in cucina, qualche cotica e la pasta preparata rigorosamente a mano. Le virtù necessitano fino a cinquanta ingredienti e ogni famiglia ha la sua versione della ricetta.

Alle volte gli ingredienti sono mescolati con altri rimasti nella dispensa, per cui variano e possono comprendere sia fagioli, lenticchie, ceci e cicerchie ma anche fave e piselli oppure grano e mais assieme ad un’ampia varietà di verdure. Il tutto, poi, impreziosito da asparagi, zucchine, carciofi, crespigno, borragine, finocchio, raponzoli, issopo, achillea, erba cardellina, santoreggia, maggiorana. Insomma di tutto un po’.

Se il piatto era un modo, per le famiglie, di consumare gli avanzi invernali mescolandoli ai prodotti freschi della nuova stagione, secondo altri la pietanza ha i suoi quarti di nobiltà e così onde preservare l’autenticità della ricetta eccoti che un gruppo di esperti e di ristoratori teramani (non si può mai stare tranquilli) hanno realizzato un disciplinare, riconosciuto nientemeno dal Ministero dell’Ambiente e delle Politiche forestali.

Sono dodici i conoscitori del settore che hanno stilato l’ elenco di ingredienti e le modalità di preparazione. Il gruppo comprende antropologi, ricercatori storici ed esperti della cucina antica teramana, maestri della ristorazione tradizionale, rappresentanti della Camera di Commercio di Teramo, della stampa e degli organi di controllo. Tutti insieme per fare una bella zuppa. Per coloro che lo volessero potranno scaricare di seguito il documento.

Le finalità del piatto, onestamente, mi richiamano alla mente quella preparazione dello stufato irlandese descritta dall’umorista inglese Jerome K. Jerome in “Tre uomini in barca” e ditemi voi, letto il brano, se mai somiglianza fu così inquietante. Cedo la parola all’autore:

“George trovò assolutamente assurdo fare lo stufato con quattro patate sole e noi ne lavammo una mezza dozzina ancora e le mettemmo in pentola senza pelarle. Aggiungemmo un cavolo e circa due chili di piselli. George rimestò il tutto e poi disse che c’era ancora spazio nella pentola, perciò noi rovistammo a fondo nelle due ceste e aggiungemmo allo stufato tutti i pezzettini, i resti, e i rifiuti che vennero fuori.

C’erano rimasti ancora mezzo polpettone di carne di maiale, un po’ di lardo lessato e freddo e infilammo tutto dentro. George scoprì inoltre una mezza lattina di salmone e vuotò anche il contenuto di quella nella pentola.

Disse che appunto in ciò consisteva la bellezza dello stufato irlandese: ci si libera di tutta la roba vecchia. Pescai ancora, e trovai due uova incrinate, e dentro anche quelle. George ci assicurò che così l’intingolo sarebbe venuto più denso.
Ora non mi ricordo tutti gli altri ingredienti ma vi posso assicurare che nulla fu sciupato; e verso la fine Montmorency, che era stato attentissimo a tutto il procedimento, si allontanò con un’aria molto seria e pensierosa e poi riapparve, qualche minuto dopo, con un topo di fogna morto in bocca che, evidentemente, voleva offrire come suo contributo al pranzo; se l’abbia fatto con intento sarcastico oppure obbedendo a un generico desiderio di collaborare, non saprei dirlo.

Non discutemmo la convenienza di metter dentro il topo; Harris era del parere che ci sarebbe stato benissimo, perché si sarebbe mischiato con le altre cose e le avrebbe migliorate. Ma George fece appello ai precedenti.

Disse che non si ricordava che nello stufato all’irlandese c’entrassero anche i topi di fogna e che quindi preferiva andare sul sicuro, mantenendosi sulla vecchia e provata ricetta, senza introdurre novità”(…)”Ma se non si provano le novità, come si può dire come sono? I tipi come te ritardano il progresso. Pensa un po’, invece, a quelli che sperimentarono per primi le salsicce viennesi”.

Siamo onesti: onde evitare la preparazione della cosa o d’esservi coinvolti, la fatica e le lungaggini che ne comporta la preparazione che poi è consumata in quattro e quattr’otto, molti se ne vanno a vedere il concerto del I Maggio a Roma oppure per prati a mangiare fave al grido di “Picnic, picnic”: te la cavi con due tramezzini, una bibita gassata e stai a posto.
– Ce la facciamo una bella zuppa teramana il primo maggio?
– Mannaggia devo andare a un picnic… -.

A essere romantici l’emozione provata al pensiero di quel cibo è quella dell’infanzia, di quando le famiglie si raccoglievano già due settimane prima e si dividevano i compiti: “Raccogli quello, io faccio questo” e via al tour de force gastronomico onde realizzare quella cosa per la quale si faceva veramente “di necessità virtù” . Ricordiamo coloro che ci hanno lasciato ed i bei momenti trascorsi insieme. Poi ripensiamo al tanto lavoro preparatorio,  agli ospiti che ciondolano per casa e i piatti da lavare e diciamo tra noi annuendo convintamente: “Picnic e bibita gassata!”.

Naturalmente ho celiato un po’ e la zuppa è grandiosa: vero cibo degli dei!

Un saluto