Un Cioccolatino Storico. In ricordo del 108esimo anniversario del Terremoto della Marsica, la testimonianza dell’artista danese Johannes Jorgensen
AVEZZANO- Buongiorno carissimi lettori ma soprattutto benvenuti al quotidiano appuntamento con i racconti del Cioccolatino Storico. Il 13 gennaio è un giorno assai triste per noi marsicani visto che ricordiamo il 108esimo anniversario del terribile terremoto che distrusse la nostra amata terra. E per ricordare quei terribili fatto, quest’anno ho deciso di riportarvi la testimonianza dell’artista danese Johannes Jorgensen che ebbe modo di vedere la devastazione prodotta dal sisma. La descrizione è assai cruda e realistica e descrive molto bene ciò che gli occhi dell’artista danese hanno visto nei giorni seguenti al sisma.
Ecco cosa scrive Johannes parlando di Avezzano:
“Camminiamo tra mucchi di macerie sempre più numerose. Sulla via principale della fiorente cittadina industriale – via Napoli – sia ha più l’impressione di camminare nel letto di un torrente. Ai due lati i mucchi di pietre salgono regolari verso le due file di rovine della strada, e sotto i nostri blocchi di pietra ondeggiavano – quasi inciampiamo su pezzi di assi e travi e palchi e mobili distrutti che sbucano dalle rovine – o rimaniamo avvolti fra cavi telefonici e telegrafici tesi come trappole sui mucchi di macerie. Si piange molto ad Avezzano, ma in modo strano, inconsapevolmente.
È fra i dodici e i quattordicimila il numero di coloro che sono morti o gravemente feriti – di fronte a una cosa così orribile la natura umana ha un solo rimedio – il pianto incessante. Le lacrime scendono in silenzio e senza sosta, non si pensa nemmeno ad asciugarle, sono l’unica consolazione, l’unico sollievo, l’unico sfogo se si vuole riuscire a sopportare. Continuiamo a camminare cercando di mantenere l’equilibrio sulla strada piena di pietre. Ancora rovine vuote – e sotto le macerie sappiamo che giacino i morti – una città di morti come Pompei. La strada sbuca in piazza Torlonia – un piccolo giardino con aiuole, alberi, un palco per la banda e i gabinetti.
È il quartier generale dei soccorsi. Qui vi sono file di tende – lì fuochi e falò – laggiù medici e infermieri, ufficiali e soldati in fermento – e lì vengono raccolti i morti estratti dalle macerie… Lungo un lato della piazza si alzano le rovine del maestoso Palazzo Torlonia questa nobile famiglia romana che cinquant’anni or sono prosciugò il lago Fucino e creò al suo posto una ricca zona agricola e industriale, aveva al centro delle sue attività il suo principesco castello. Il terremoto lo ha distrutto. Sono rimasti gli angoli, come quinte di un teatro, lassù nelle mura distrutte si apre una porta, ciondola una solitaria finestra, ma in basso ghiaia, calce, gesso, brandelli di muro, pezzi di tavole, e il lavoro dei pochi soldati appare singolarmente disperato.
I morti coperti da una tela di sacco hanno sul petto un cartellino con i nomi, fissato con uno spillo. Dal Palazzo Torlonia risaliamo la lunga via Napoli, l’altra via principale della città. vi sono ovunque famiglie occupate a salvare il salvabile dai loro appartamenti distrutti che riconoscono dalle tappezzerie alle pareti o dalle immagini sacre sopra il letto. C’è un carretto con una collezione di libri – libri ecclesiastici con la legatura in pergamena – la biblioteca del parroco, immagino. La maggior parte del lavoro viene fatto naturalmente dei soldati. Qui i bravi soldati italiani sono proprio al posto giusto. Lavorano instancabili, con costanza, con energia. E gli ufficiali che li guidano cono così umani, così compassionevoli. Il puzzo dei cadaveri è forte. Nauseabondo e pesante sale fra i mucchi di macerie.
“Non c’è da meravigliarsi”, ci dice un giovane ufficiale, “dei quattordicimila morti di Avezzano, ne sono stati estratti dalle macerie solo quattromila…”. Ci si abitua a tutto…ci si abitua al fatto che le cose ora esistono solo allo stato di rovina…ci si abitua a vedere lacrime in tutti gli occhi e udire i gemiti delle persone…ci si abitua a vedere estrarre dalle macerie i cadaveri polverosi…ci si abitua al lezzo di cadaveri che sale sempre più forte attraverso la calce e le pietre, le travi e la paglia e le tegole, i mobili fracassati. Il 7 febbraio, il venticinquesimo giorno dopo la catastrofe, è stato estratto dalle macerie un uomo ancora vivo. Ora gli zappatori giù in fondo si fermano – e d’improvviso fanno un cenno verso l’alto – vogliono ascoltare. E d’un tratto si fermano tutti gli strumenti – gli ultimi blocchi di pietra rimossa rotolano fino a fermarsi, scorre ancora un po’ di ghiaia, tutti tacciono, tutti ascoltano… Ma di là dal cumulo la gente fa rumore, e intorno lavorano scavando nelle altre rovine – ancora non si riesce a sentire – le voci che chiamano da sotto sono così deboli.
E si fa silenzio. Si fa un silenzio di morte e noi ascoltiamo tutti, tesi, trattenendo il fiato, ascoltiamo laggiù in basso… L’edificio della stazione ha subito gravi danni. Ma non è crollato. La grande tettoia di zinco del marciapiede si è accartocciata – dice il mio accompagnatore – “come un foglio di carta tenuto sul fuoco”. Ci sono ovunque travi di ferro crollate, mucchi di fili aggrovigliati, cumuli di mattoni. Ma il traffico è ripreso – arrivano treni da Roma – treni pieni di infermieri e feriti alzano la pressione del vapore, pronti per iniziare il viaggio verso Roma. Le barelle vengono portate lungo i vagoni, suore di carità e membri dei gruppi di soccorso con la fascia al braccio si affrettano fra i soldati, giornalisti e deputati del parlamento. Nella piazza verde davanti alla stazione ci sono le tende dell’ospedale da campo”.
E noi di Espressione24 vogliamo dedicate un pensiero, uno sguardo al cielo ma soprattutto una preghiera ai defunti di questa tragedia: sappiate che siete sempre nei nostri ricordi.
Un Abbraccio Storico
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