Decreto carceri: la montagna partorisce il topolino. Intanto in carcere chi ci rimette sono tutti, detenuti (poco fa la notizia del 65°suicidio) e chi ci lavora
ROMA- È legge il tanto discusso decreto carceri. Un disposto normativo che ha fatto tanto parlare di sé ma che poco, stante quanto dicono gli addetti ai lavori, servirà per rendere meno opprimente una situazione che dire infernale rappresenterebbe quasi un eufemismo.
Si è parlato molto per diagnosticare il mal di vivere in carcere dei 65 suicidi ( l’ultimo, quello di Prato, arrivato quasi in diretta) che dall’inizio dell’anno ha cancellato dall’anagrafe italiana altrettanti detenuti. Molto poco di chi, invece, in carcere ci va per lavorare costretti così come lo sono a effettuare turni massacranti, falcidiati da aggressioni e minacce e, spesso, non messi in condizione neanche di andare in ferie.
Eppure nessuno ha preso atto né dell’una né dell’altra delle questioni per tirare fuori un decreto che accontentasse maggiormente chi si aspettava molto di più.
Va bene prendere decisioni perché frutto di particolari convinzioni. Ma fare cose che alla fine servono a ben poco rappresenta poco più che una presa in giro.
Non si potevano costruire nuove e più funzionali carceri dall’oggi al domani e al governo lo sapevano.
Così come non potevano non sapere che assumere i 18.000 Poliziotti Penitenziari mancanti in poco tempo è pura utopia.
A rimetterci, quindi, in conseguenza della impostazione data dall’attuale governo al decreto che avrebbe dovuto fare star meglio detenuti e operatori penitenziari, secondo chi ci lavora in carcere, sarebbero tutti.
Insomma si sarebbe fatto tanto per, in sostanza, non fare niente.
E mentre si parla e si discute di questo il disagio dettato dall’eccessivo sovraffollamento e da una condizione carceraria mai così drammaticamente in ginocchio resta così come i grandi problemi dei detenuti e degli operatori penitenziari.