Diario di un viaggio nell’Oratorio di San Pellegrino, la “Cappella Sistina d’Abruzzo”, della scrittrice dei Marsi Maria Assunta Oddi
Tornando da un convegno tenutosi a Chieti sul Tratturo Magno nella giornata del 9 novembre, con il desiderio di ripercorrere il cammino dei pastori, una strada stretta, in alcuni punti sterrata e costeggiata dai campi, ci ha permesso di raggiungere Bominaco, frazione di Caporciano, in provincia di L’Aquila.
Salire l’altopiano di Navelli, lungo strade percorse da monaci, pellegrini e pastori, per ammirare nel piccolo borgo abruzzese, il tesoro sorprendente dell’Oratorio di San Pellegrino, parte di un complesso monastico che comprende anche la chiesa di Santa Maria Assunta, non può che suscitare meraviglia.
L’oratorio, dedicato al Santo siriano della prima comunità religiosa locale, chiamato la “Cappella Sistina d’Abruzzo”, per la valenza artistica degli affreschi paragonato alla Cappella degli Scrovegni, è stato dichiarato Patrimonio mondiale dell’Umanità dall’Unesco.
Varcare il portale d’ingresso spoglio e disadorno accresce lo stupore per la bellezza sublime del luogo interno alla struttura ricco di immagini preziose. Leggere dagli intonaci affrescati il racconto mitico dei testi sacri con la sensibilità dell’uomo del Medioevo tormentato dal giudizio di Dio invita a riflettere sull’antico conflitto tra potere secolare e quello spirituale.
Due iscrizioni, una sull’architrave del rosone della facciata, e l’altra sui plutei del cancello nel presbiterio, confermano la datazione del 1263.
Nell’ottica storicistica di Dilthey è infatti possibile immergersi in un’epoca, rivivendola nella sua ideologia tramite l’Erlebnis, cioè l’esperienza vissuta in un viaggio nell’arte. Una porta laterale all’edificio, utilizzata soprattutto dai monaci, mostra l’immagine del Giudizio Finale con la Maiestas Domini per ammonire i fedeli ad una vita timorata e virtuosa.
L’arte pittorica dell’Oratorio, lontana da intenti di puro diletto e compiacimento estetico fine a sé stesso, vuole indottrinare il popolo degli incolti ai dogmi del Cristianesimo. I personaggi dipinti sono vividi e sempre ispirati all’esistenza concreta degli autori. Osservarli da vicino produce un tale impatto empatico da creare una condivisione emotiva capace di farti sentire parte della stessa umanità anche se distanti nel tempo.
Gli affreschi si presentano all’osservatore come fotogrammi tratti dall’Antico e Nuovo Testamento in cui i protagonisti si animano e narrano la loro storia. Il romanico nella dinamicità del suo stile espressivo supera la statica fissità delle icone bizantine e dialoga con il visitatore con una gestualità più moderna. Le pittura murali disposte in tre registri, rappresentano scene della Passione, del Giudizio Universale e della vita di San Pellegrino.
Eppure passando in rassegna le numerose immagini colpisce per la maestosa espressività del volto la figura di San Cristoforo, traghettatore delle anime, rappresentato con Gesù Bambino sulle spalle, in linea con la considerazione teologica del Medioevo, che considera l’arte un mezzo per passare dalla dimensione terrena a quella celeste.
Unico nel suo genere e svincolato dall’indottrinamento per il suo utilizzo pratico nella quotidianità mi sono apparse le scene dedicate al Calendario dove i mesi, anticipando la pittura gotica, diventano personificazione antropomorfa delle varie attività umane presenti nel mondo agro-pastorale.
Una cattedrale dell’anima è a mio avviso l’Oratorio di San Pellegrino capace di suscitare emozioni con la sua aurea mistica. Si resta a bocca aperta quando, da un angusto portico a tre arcate, varcando il portone ligneo, il buio d’improvviso si illumina di colori variegati e immagini multiforme. La volta a botte della piccola cappella, si anima allora di mirabili intonaci e a chi visita stupefatto non resta che aprire il proprio cuore alla bellezza di un Dio che ama le sue creature promettendo l’immortalità dell’anima nel dare un senso all’effimero cammino esistenziale.
Del resto tutti noi siamo “Transumanti” proprio come i nostri avi che fecero dei tratturi incontri con culture e costumi diversi per ritrovare infine nei luoghi natali la bellezza delle proprie radici. Se come dice Marcel Proust “Viaggiare non serve solo per vedere nuovi posti, ma per vederli con nuovi occhi” non resta che aprire i sogni più inediti al mistero dell’ignoto per ritrovare sè stessi. Viaggiare anche se solo nel nostro territorio corrisponde ad un bisogno di narrare e descrivere per comunicare agli altri ciò che si è visto per ampliare gli orizzonti culturali nella consapevolezza di essere circondati da un luogo meraviglioso, come quello della Regione dei Parchi naturali e antropici.
Maria Assunta Oddi