I Quarantasette Rōnin. Una storia di onore, lealtà e amicizia. In Giappone, ovviamente…

C’è una struggente storia giapponese che riguarda quarantasette samurai “rōnin”. È un  fatto realmente accaduto. Prima di iniziare il racconto, però, vale la pena conoscere cosa era un samurai.

All’epoca, siamo nel XVIII secolo, in Giappone esistevano due caste di guerrieri: samurai e rōnin. Non erano soldatacci aridi e violenti ma persone colte, conoscitrici delle arti marziali, dello zen, dell’arte della scrittura e quella del tè.

Non volevo accennare a quest’ultima arte che per la nostra mentalità li caratterizzerebbe come tante “donnine di casa” dedite a spolverare i mobili. Quella del tè è una vera e propria espressione della cultura zen che si accompagna a pratiche meditative. Insomma era ben altra cosa che bere la bevanda con due biscottini e caratterizzava la raffinatezza di questi uomini d’arme. Pensate che Hojo Nagauji, uno dei più importanti samurai della sua epoca, scrisse nei “Ventuno precetti del samurai”: “La via del guerriero deve sempre essere sia culturale, sia marziale”.

I Nostri vivevano a latere del loro signore del quale erano le persone più fidate. La parola “samurai”, infatti, trae origine  dal  verbo, “saburau“, in lingua giapponese e non sarda che significa “servire” o meglio “tenersi a lato”. Questi guerrieri erano legati con un giuramento d’onore al loro Signore. Il patto di fedeltà assoluta era rispettato molto rigidamente fino al sacrificio estremo. Attenzione perché giungiamo, ora, al punto che caratterizzerà il nostro racconto. Il samurai aveva anche il compito di salvaguardare l’immagine ed il prestigio del suo signore: qualora quest’ultimo subisse una qualsivoglia calunnia da parte di un nemico, spettava a lui andare a reclamare vendetta in duello e proprio questa motivazione sottende il nostro racconto.

BUSHIDO, CODICE D’ONORE DEI SAMURAI E IL CILIEGIO

I samurai seguivano un preciso codice d’onore: il bushidō (“la via del guerriero”). Questi artisti della battaglia si attenevano a sette principi fondamentali: Onestà e Giustizia, Eroico Coraggio, Compassione, Gentile Cortesia, Completa Sincerità, Onore, Dovere e Lealtà. Cose ormai poco note persino in Vaticano. Il loro emblema era il ciliegio. Vi chiederete: “ma come dei soldati spietati, pronti a sacrificare sè stessi e a uccidere il nemico senza proferire né ahi né bai hanno per simbolo un ciliegio?” Strano? Ma anche no.

Un vecchio adagio recita: “Tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero“. Per comprendere la cosa bisogna entrare nella mentalità nipponica. Il samurai è consapevole di essere solo di passaggio su questa terra. Tanto intensa e magnifica è la sua vita quanto effimera. Nell’iconografia giapponese, il ciliegio (si chiama sakura nella lingua del Sol Levante) rappresenta allo stesso tempo sia la bellezza che la caducità della vita. Il gesto con cui il vento di primavera rapisce i suoi petali rosa è paragonabile alla morte. Un gesto delicato ed elegante. Mai brutale e radicale.

L’albero, per i nostri guerrieri, quindi, rappresenta la bellezza e la caducità della vita: nella fioritura mostra uno splendido spettacolo, nel quale il samurai riflette la grandezza della sua figura di guerriero. Un temporale o un soffio di vento, però, è sufficiente perché tutti i fiori cadano, proprio come il samurai può cadere per un colpo di spada infertogli dal nemico. E i rōnin? Erano la stessa cosa. Questo nome era assegnato, nel Giappone del XVIII secolo, ai samurai che restavano senza signore e che quindi spesso divenivano mercenari o non sapevano dove sbattere la testa.

IL SEPPUKU

Seppuku. Notare il padrino con la Katana

Questi onorevoli combattenti, fossero samurai o rōnin erano spietati anche con sé stessi. In caso di colpa grave o come mezzo per sfuggire a una morte disonorevole, adottavano il suicidio rituale o Seppuku. Un tipo di morte condivisa anche dalla nobiltà giapponese. La traduzione della parola non dà adito a dubbi: “taglio dello stomaco”. Come si eseguiva? In un modo molto semplice: ci si tagliava la pancia! Insomma ci si provocava uno squarcio talmente profondo da procurarsi la morte. Per rispetto alla sua casta, seppure condannato alla pena capitale, il samurai, non era mai giustiziato ma invitato a togliersi la vita e con questo evitava il disonore.

In alcuni casi questa operazione prevedeva due soggetti: il morituro ed il padrino. Il primo era quello che doveva suicidarsi, il secondo, in piedi dietro a lui con la spada sguainata, o meglio la Katana, l’arma bianca tipica del samurai, provvedeva a decapitarlo qualora questi avesse dato un segno di esitazione salvandogli la dignità… .

I QUARANTASETTE RŌNIN

Veniamo alla vicenda. Nel 1701 due daimyō, cioè due signori giapponesi, Asano Naganori, il giovane signore di Akō (un piccolo feudo nella parte occidentale di Honshū) e Kamei Korechika del feudo Tsuwano, ricevettero l’ordine di organizzare un ricevimento per alcuni inviati dell’imperatore presso il castello di Edo. I due avrebbero dovuto essere istruiti sul rispetto dell’etichetta da un importante ufficiale di corte che si chiamava Kira Kozuke-no-Suke Yoshinaka, cerimoniere dello shōgun. Un nome improponibile per noi occidentali: lo chiameremo Kira come un personaggio dei cartoni animati.

LA MALEDUCAZIONE DI KIRA

Tomba di Asano Naganori

Kira, a detta degli storici, era indisponente nei confronti dei due signori perché non era stato sufficientemente unto (pure allora c’era questa usanza…). Secondo altre fonti, invece, era non solo di natura scortese e arrogante ma anche corrotta. Chiaramente i due signori fecero buon viso a cattivo gioco e tollerarono i suoi soprusi finché uno di loro, Kamei, non decise che la misura era colma e quindi di darci un non metaforico taglio ammazzandolo. Intelligentemente i suoi consiglieri, però, passarono sottobanco una bella mancia al nostro Kira che cominciò a rispettare Kamei e le cose cambiarono. Tenete presente, ora, che quanto sto per narrarvi si svolgeva nel palazzo dello Shogun.

Asano, l’altro signore, non si salvò dalla maleducazione di Kira: non aveva “appoggiato” la dovuta mazzetta. Nei corridoi del palazzo ricevette gli insulti del cerimoniere che lo definì “bifolco” senza buone maniere. Asano perse la calma e lo ferì in volto con una pugnalata. La ferita era di poco conto ma l’aggressione a un ufficiale dello shōgun all’interno dei confini della sua residenza era considerato un grave reato. Il povero Asano arrestato e condannato a morte sui due piedi dovette fare un bel seppuku. Secondo la legge, poi,  i suoi beni e le terre subirono una confisca e la famiglia finì in rovina. I suoi Samurai? Divennero dei rōnin costretti a  trovare dei lavori umili per sbarcare il lunario.

DUE ANNI DI PREPARATIVI

Statua di Yoshio Ōishi

Quarantasette degli oltre 300 uomini di Asano e in particolare il loro leader Yoshio Ōishi, rifiutarono l’idea di lasciare il loro signore invendicato anche se la ritorsione era proibita in questo caso specifico. Giurarono di vendicarlo uccidendo Kira, consapevoli della punizione che li avrebbe attesi. Ōishi divorziò dalla moglie con un falso pretesto in modo che non potesse essere punita al termine della missione. La mandò assieme ai due figli più piccoli a vivere con i genitori, quindi chiese al figlio maggiore Chikara di scegliere: rimanere e combattere oppure andarsene. Chikara scelse di rimanere con suo padre.

Trascorsero due anni a preparare un meticoloso piano per consumare la vendetta, andando incontro a innumerevoli sacrifici e umiliandosi pur di attuare il loro proposito e sviare sospetti sulle loro intenzioni. Molti vissero a Edo facendo gli operai e i mercanti. Ottennero anche accesso alla casa di Kira, acquisendo familiarità con la struttura e con i suoi abitanti. Okano Kinemon Kanehide, uno dei quarantasette, arrivò a sposare sposò persino la figlia del costruttore della casa pur di ottenere le piantine dell’edificio.

L’ATTACCO

Assalto alla casa di Kira

Il 14 dicembre del 1702, durante una forte tempesta di neve, Ōishi e gli altri rōnin attaccarono la dimora di Kira Yoshinaka. L’attacco prevedeva di risparmiare donne, bambini e altre persone indifese. Avrebbero restituito l’onore al loro defunto signore.

Ōishi fece in modo che quattro uomini scalassero la recinzione ed entrassero nella portineria, catturando e legando la guardia. In seguito mandò dei messaggeri in tutte le case limitrofe. Questi spiegarono ai vicini che non erano ladri ma servitori che vendicavano la morte del loro padrone. Uno dei rōnin, poi, salì sul tetto e urlò a squarciagola che era in corso un katauchi, la vendetta da parte di un gruppo di samurai intenzionato a vendicare il proprio onore oltraggiato.

I vicini, che odiavano Kira, si guardarono bene dall’ostacolare i samurai. Una volta certo di avere in pugno la situazione, Ōishi suonò il tamburo per iniziare l’attacco. L’arrogante Kira, vistosi perso, terrorizzato, si rifugiò in un armadio nella veranda insieme a sua moglie e alle sue domestiche. Tutti i suoi servitori finirono prigionieri. In totale i rōnin si misero all’anima sedici uomini e ne imprigionarono ventidue.

Ma Kira dov’era?

In tutto l’edificio c’erano soltanto donne e bambini in lacrime. Cerca di qua e cerca di là lo trovarono, infine, nascosto in una legnaia. Kira si rifiutò di declinare la usa identità ma fu tradito dalla cicatrice sul volto provocata dal pugnale di Asano.

La fine di Kira

Ōishi si inginocchiò davanti all’uomo: era pur sempre di rango più alto del suo e gli annunciò rispettosamente che erano i samurai di Asano, venuti a vendicarlo per rispettare il loro patto d’onore. Offrirono a Kira la possibilità di fare un onorevole seppuku fornendogli (quale finezza…) lo stesso pugnale che Asano aveva usato per togliersi la vita. Siccome l’uomo accovacciato e tremante non proferiva verbo Ōishi, ordinato a un compagno di tenerlo fermo, lo decapitò. In fondo fu un atto di cortesia: gli fece da padrino evitandogli una fine ignomignosa. Compiuta la vendetta, i samurai, spente tutte le lampade e i fuochi della casa (per evitare incendi che danneggiassero il vicinato), se ne andarono con la testa di Kira.

Uno dei rōnin, Kichiemon Terasaka, andò ad Akō per riferire del successo ottenuto. All’alba del 9 Dicembre del 1702 i fedeli servitori di Asano portarono la testa del decapitato davanti alla tomba del loro signore nel tempio di Sengaku-ji. Marciarono per una decina di chilometri attraverso la città provocando una grande agitazione ma accolti dal plauso della folla.

Arrivati al  tempio, lavarono e ripulirono la testa in un pozzo posandola con il pugnale davanti alla tomba del loro defunto signore. Dato all’abate tutto il denaro che era loro rimasto, chiesero di essere seppelliti con le più solenni preghiere, poi il gruppo si consegnò alle autorità.

LA CONDANNA

Le tombe dei 47 Ronin

Un grave dilemma si poneva, in quel momento, davanti ai funzionari dello shogun di Edo: I samurai avevano lavato l’onta del loro signore come da precetto ma disobbedito all’autorità dello shogunato che aveva vietato quella vendetta. Cosa fare? C’era dell’altro: lo shōgun ricevette una serie di petizioni dalla popolazione che plaudeva l’operato dei rōnin chiedendo che fosse risparmiata loro la vita. I Giapponesi sono giapponesi e come previsto giunsero comunque le condanne a morte. Unica concessione: commettere onorevolmente seppuku anziché essere giustiziati come criminali comuni e così fu. Oishi Chikara, il più giovane, aveva solo quindici anni il giorno in cui avvenne il raid e sedici il giorno in cui commise seppuku. Ognuno dei quarantasei rōnin si suicidò il 4 febbraio del 1703.

LE TOMBE

La stele a memoria dei samurai nell’Ambasciata Italiana

Mancava ancora un guerriero: il quarantasettesimo, Kichiemon Terasaka inviato ad Ako. Al ritorno dalla sua missione ricevette la grazia e visse fino all’età di 87 anni, morendo intorno al 1747. Ebbe sepoltura dove riposavano i suoi compagni. I quarantasette rōnin successivamente trovarono posto nel tempio di Sengaku-ji, di fronte alla tomba del loro signore.

Attualmente i loro sepolcri a Tokyo sono oggetto di culto. Giacciono tutti insieme così come morirono: tutti uniti. il 14 dicembre di ogni anno, si celebra un importante festival di commemorazione in cui si vuole ricordare questo evento e rammentare la lealtà ed il grande coraggio e onore dei quarantasette samurai, diventati ormai una leggenda nazionale. Le loro gesta rappresentarono l’essenza del bushido. Una curiosità: 10 di loro fecero seppuku in un giardino che adesso fa parte dell’Ambasciata Italiana a Tokyo.

Nella realtà Oishi Chikara fece suppuku col padre Oishi: aveva 16 anni. Al centro dell’immagine un albero di ciliegio

EPPURE IL GESTO FU CRITICATO

I rōnin rimasero oltre 14 mesi in attesa del “momento giusto” per la loro vendetta. Yamamoto Tsunetomo un samurai filosofo e scrittore del XVIII secolo pose questa domanda: “E se, nove mesi dopo la morte di Asano, Kira fosse morto di malattia?” I quarantasette rōnin avrebbero perso la loro unica possibilità di vendicare il loro signore.

Anche se finsero umiltà e dissolutezza per sviare i sospetti di Kira, nessuno l’avrebbe saputo e sarebbero stati ricordati per sempre come codardi e ubriaconi, portando eterna vergogna al nome del clan Asano.

IL VERO OBIETTIVO DA PERSEGUIRE

Loro dovere sarebbe stato quello di attaccare Kira e i suoi uomini immediatamente dopo la morte del loro signore. Forse sarebbero stati sconfitti, dato che l’ufficiale dello shōgun si aspettava una loro reazione, ma questo non era importante. Secondo Yamamoto, Ōishi si preoccupò troppo di garantire la morte di Kira. L’importante non era tanto l’uccisione del cerimoniere quanto dimostrare l’eccezionale coraggio e determinazione dei quarantasette nell’assalto, ottenendo eterno onore per il loro signore morto.

La vittoria e la sconfitta del loro nemico non erano, pertanto, le loro finalità. Aspettando rischiarono di disonorare il nome del loro clan, il peggior peccato che un samurai potesse commettere. Quanto è difficile la strada dell’onore in Giappone… .

Come vedete tutto è una questione di punti di vista. Rapportata ai nostri tempi la cosa non sarebbe proponibile a meno di inquadrarla in una faida mafiosa. Spero la storia vi sia piaciuta e che abbia contribuito a una maggiore comprensione di quello che furono i samurai e la loro mentalità. Un saluto da un metro e mezzo di distanza.

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