Addio Pablito! Il 2020 si porta via il re del Mundial che ci fece sognare tutti

Paolo Rossi è morto nella notte. Fu il simbolo dell’Italia degli anni ’80 e un esempio dentro e fuori dal campo

Per chi ruota in torno alla sessantina l’estate 1982 è uno di quei momenti, uno di quei ricordi che non sbiadirà mai, nemmeno sotto l’attacco patologico più feroce alla memoria e al cervello.

La storia inizia il 14 giugno 1982,e non inizia in modo esaltante. Debutta la nazionale italiana di calcio nel Mundial di Spagna. Avversario è la Polonia di Zibì Boniek. In campo c’è un tale signor Rossi, grande e giovane centravanti. E’ atteso da tutti. Il suo istinto per il gol, l’essere un vero padrone, un killer, dell’area di rigore ci fa sperare. L’Italia si ferma, come accadeva quegli anni.

Le strade e le piazze, al momento del fischio d’inizio dell’arbitro, si fermano e vanno in una sorta di sospensione temporale. E’ caldo, caldissimo, il sole invade ogni angolo. Per strada si incontra solo qualche coppietta e rarissimi cani e gatti randagi che cercano di sfuggire alla canicola. Si sente l’acqua delle fontane e il rumore di qualche auto in ritardo con l’appuntamento, ma è lontana, magari, decine dimetri. I bar sono aperti e dentro, chi guarda la partita con gli amici è in religioso silenzio. Un silenzio e pronto a rompersi quando la palla toccherà Rossi ed entrerà in rete.

Ma resteremo muti. Non le prendiamo ma nemmeno le diamo. Zero a zero e il percorso inizia a complicarsi. Ma le speranze ora sono riposte nell’incontro di quattro gironi dopo. Il 18 giugno, allo stadio di Vigo, ce la vediamo col Perù Bravi, giocolieri, ma non irresistibili. Stavolta la rete si gonfia due volte. Rossi non segna ancora e la gente inizia a disperare. Il problema è che una delle due reti la segniamo nella porta sbagliata. Fulvio Collovati, uno dei centrocampisti più forti al mondo, a sei minuti dalla fine, centra Zoff, il nostro portiere. 1-1, ancora pareggio. Ancora difficoltà. Stampa e tifosi iniziano a disertare e a dire che forse è meglio che ce ne torniamo a casa prima di fare brutte figure solenni. E il rischio di imitare la debacle con la Corea di qualche trent’anni prima, esiste. E la rischiamo la figuraccia. Il 23 giugno, nello stesso catino infuocato di Vigo, infatti, incontriamo il Camerun, nazionale africana giovane, atleticamente in forze ma tecnicamente, almeno così si dice, non in grado di contrastare l’Italia. Due i nomi che ci resteranno nella memoria: il portiere N’Kono e il capitano attaccante M’Bida. N’Kono chiuderà la porta alle poche incursioni dei nostri, M’Bida ci segnerà una rete dolorosissima. Pareggiamo grazie ad un colpo di testa di Ciccio Graziani che, in modo rocambolesco, infila la porta africana. Rossi praticamente inesistente. Passiamo il turno per la differenza reti proprio in danno del Camerun.

La cosa peggiore, e che porta tifosi e stampa alla disperazione, è che nel secondo turno ce la dobbiamo vedere con l’Argentina di Diego Maradona e Passarella, ma anche di tanti altri, e con il Brasile di Socrates, di Zico, di Junior e di Toninho Cerezo. In molti consigliano a Bearzot e agli azzurri di prenotare l’areo per il ritorno. Invece Bearzot chiude la squadra in ritiro e in silenzio stampa.

E’ il 29 giugno 1982. Stadio Sarrià di Barcellona. Ore 17,15, temperatura da deserto del Sahel. Luce abbagliante. Il campo spagnolo e le piazze italiane si confondono. L’unica differenza e che al Sarrià gli spalti ribollono, soprattutto per parte argentina, e in Italia le strade sono deserte e silenziose. Un silenzio di preoccupazione. Si spera, ma è la speranza a cui ci si aggrappa quando si sta per cadere.

E invece… la storia scriverà altro, ben altro. Gli azzurri entrano in campo e iniziano a giocare come se fossero stati toccati da quel dio che il grande Gianni Brera, forse il più grande raccontatore di sport, giornalista e scrittore, soleva chiamare Eupalla. L’Argentina è sorpresa dalla vitalità e dalla velocità degli italiani. Il primo tempo finisce senza reti. Ed è già un miracolo, ma l’aria è cambiata. C’è fiducia, si aspetta la zampata. Le zampate arriveranno e saranno due che metteranno ko i biancocelesti sudamericani. Tardelli e Cabrini abbatteranno il gigante. Rossi non segna ancora e il suo blocco è preoccupante. Ma Bearzot, grande conoscitore di calcio e uomo d’onore, nel senso nobile del termine, lo mette in campo e aspetta, certo che non tradirà e che i suoi guizzi letali arriveranno al momento giusto. E sarà così.

5 luglio 1982, ore 17,15. Ancora il Sarrià di Bacellona. Il catino spagnolo è una corrida. Per metà è verde-oro, l’altra metà è azzurra e tricolore. Il caldo è asfissiante, oltre i 30 gradi fissi e un’umidità che si può… imbottigliare. Brasiliani e Azzurri entrano in campo. I ragazzi di Bearzot ora hanno piglio, non si sentono inferiori e i tifosi, allo stadio come in ogni angolo del paese, attendono il secondo miracolo. L’Italia intera si paralizza quasi due ore prima. Non c’è casa, ufficio o bar dove non ci sia una televisione accesa.

Bastano cinque minuti e la bomba azzurra esplode. Cabrini ruba palla ai giocolieri brasiliani sulla sinistra, scende sulla fascia, arriva vicino al vertice dell’area grande e crossa. Il pallone, dritto come un laser e lento, per noi, come il volo di una colomba, arriva sulla testa dell’unico che poteva fare quel miracolo. Pablito Rossi stavolta è puntuale all’appuntamento. «C’era scritto “Basta Spingere”», racconterà scherzosamente qualche anno dopo. Rossi impatta il pallone che va dritto dritto nella porta brasiliana. L’Italia esplode, chi piange, chi inizia a pregare, chi non vuole svegliarsi da questo sogno. Pablito è impazzito, corre verso la bandierina a destra della porta verde-oro in preda alla felicità di una ragazzino. Ma si deve riprendere. Venti minuti dopo arriva la replica. Stavolta è direttamente lui, Pablito, che ruba la pala a centrocampo, arriva in area di rigore, tira forte come solo lui sa fare e ferisce per la seconda volta il Brasile. Lo stadio salta in aria, la parte azzurra, e in Italia si entra in un clima misto fra gioia, attesa e ansia. Nel mezzo c’era stato Socrates che aveva seminato il panico in area azzurra e aveva infilato Zoff, sulla sua sinistra, fra palo e portiere. Ora siamo di nuovo in vantaggio. Finisce il primo tempo e siamo in vantaggio sul Brasile. Dieci giorni prima in molti volevano mettere gli azzurri sul primo volo per Roma. Ma non è finita. A ricordarcelo sarà al 68′, 23′ minuto del secondo tempo, Paulo Roberto Falcao, che con una danza al limite dell’area di rigore, sposta i difensori italiani e si crea un’autostrada verso la porta. E’ 2-2 e manca meno di mezz’ora alla fine. Ma la gioia brasiliana durerà solo sei minuti.

Stadio Sarrià di Barcellona, Italia-Brasile, 2-2, in gioco, la semifinale mondiale. L’Argentina è fuori. La partita è fra i due undici in campo. Manca poco più di un quarto d’ora alla fine. Calcio d’angolo dalla sinistra della porta brasiliana, la palla giunge al limite dell’area, un attaccante azzurro tira, la palla sembra destinata alla destra del portiere ma… Ma appostato a pochi metri, in posizione regolare, tenuto in gioco da un difensore brasiliano, c’è Pablito. Tocca la palla con potente delicatezza, quel tanto che serve per mutarle la traiettoria e infila per la terza volta il Brasile. La “Torcida” verde-oro ammutolisce, preoccupata. I tifosi azzurri al Sarrià e in ogni angolo dello stivale esultano e pregano come mai in vita loro. I quindici minuti che avanzano saranno una sorta di diga del Piave e Dino Zoff sarà il generale Diaz che, con urla disumane, dirigerà la barricata di resistenza contro i brasiliani. Arriva il fischio che dice che la partita è finita. L’aereo lo prendono i brasiliani, L’Italia è in semifinale. Le strade impazziscono, caroselli, cortei d’auto, gente imbandierata come per il 2 Giugno, cori, feste, tuffi nelle fontane, brindisi e la foto di Pablito che ora campeggia dappertutto.

La partita seguente, la semifinale con la Polonia, per altro priva di Boniek, la sua stella, è un pro forma. La Polonia è la stessa che a inizio mondiale ci aveva imposto uno 0-0 tanto noioso quanto portatore di angosce. Ma in campo i polacchi trovano un’altra Italia e soprattutto Paolo Rossi caricato a mille. Li infilerà due volte e l’Italia è in finale. Ancora feste, ancora balli e tuffi. Ma ora tutto è puntato sull’Estadio “Bernbeu” di Madrid, l’11 luglio 1982. E’ lo stadio del Real Madrid, è immenso e incute anche un po’ di timore. Sarà pieno, sì pieno di Italiani che, finita la partita con la Polonia, hanno fatto di tutto per poterci esserci. Sono arrivati in dieci giorni, in automobile, in aereo, in autobus, in treno. La sera dell’11 Luglio 1982, ore 20, tutta Italia si ferma in religioso silenzio davanti alla televisione. E’ la finale, siamo a un passo, dopo 44 anni, dal vincere un mondiale. Davanti c’è la Germania Ovest di Stielike, Breitner e Rummenigge. Primo tempo in parità, anche se Cabrini sbaglia un rigore, facendo saltare le coronarie a molti e facendo temere per il peggio.

Ma il dio Eupalla di prima, aveva scritto un copione ben più avvincente. Le festa può iniziare al 57′ dell’incontro. Scirea, altro indimeticato campione scomparso troppo presto, scende sulla destra e crossa. Ci sono azzurri e tedeschi in fila davanti al portiere teutonico Harald Schumacher. Ma soprattutto, c’è lui, Pablito, che si inchina al pallone, arriva quasi per terra, lo colpisce con la testa e affonda per la prima volta i tedeschi. Lo imiteranno di lì a poco Tardelli, col suo urlo diventato simbolo di gioia e di vittoria, e “Spillo” Altobelli. A sette minuti dalla fine, Paul Breitner segnerà ricordando agli astanti che in campo c’era anche la Germania. I “Panzer” sono sconfitti e con l’urlo “Campioni del Mondo – Campioni dl Mondo – Campioni del Mondo!” del telecronista Rai, il mitico Nando Martellini, finisce la partita, siamo sul tetto del Mondo. Il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, gioisce con l’Italia intera che intanto è scesa per strada e festeggerà tutta la notte. Il simbolo di questa vittoria è lui, Paolo Rossi, ormai per il mondo, Pablito.

Lui ci ha fatto sognare e gioire e oggi, che dobbiamo piangerlo, lo vogliamo credere a sfidarsi tra le nuvole con Diego Maradona che, sicuramente, nel vederlo arrivare, avrà fatto la sua faccia stupita e gli avrà detto “Che ci fai qui, Pablito?”. E lui sorriderà, come sempre. Addio Pablito!

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