Borghi abbandonati d’Abruzzo. I luoghi incantati dell’aquilano: da Sperone a Rocca Calascio fra bellezza e mistero
Continuiamo la nostra perlustrazione dei borghi abbandonati e bellissimi d’Abruzzo. Non riesco a capire il perché dello spreco di tanti bei posti riutilizzabili come città-vacanze, agriturismi, come musei della memoria locale oppure centri benessere ma tant’è. Spesso chi possiede un tesoro non se ne rende conto ed è il nostro caso. Iniziamo con una gita a Sperone.
Il comune fa parte del territorio di Gioia de Marsi da cui dista circa sette chilometri in località “la Forchetta” a una altitudine di 1240 metri sul Monte Morrone. È il naturale balcone che si affaccia sulla spettacolare vallata del Fucino. Un po’ di storia la facciamo? Il suo nome trae origine dall’unione di due castelli chiamati Sparnasio (dal dio Pan protettore dei pastori e delle greggi) e Asinio. Dopo la distruzione dei due i castelli ne fu ricostruito uno solo (Sparnasio) che fu chiamato “Speron d’Asino” in quanto gli abitanti di Asinio ne vollero far parte. Nel borgo, sono presenti due chiese e una torre. All’interno della parte abitata la chiesa di Santa Maria, poco fuori dall’abitato quella di San Nicola. La torre, risale al XIII secolo e fu fatta edificare dai conti Berardi a scopo difensivo. La costruzione usata come punto di avvistamento ha un diametro di otto metri per diciotto di altezza. Tutto attorno le abitazioni. Il paese, lo scorso secolo, era privo di energia elettrica. Anche l’acqua scarseggiava e veniva attinta alle fonti vicine. Tutto ruotava intorno alla coltivazione della terra (grano e vigneti) e all’allevamento. Il terremoto del 1915 fece si che gran parte degli abitanti abbandonassero le loro case. Sebbene la gente si fosse stabilita nel nuovo borgo, tornava nella semi diroccata chiesa di San Nicola per la festa del santo patrono. Da qui nacque l’usanza suggestiva del pellegrinaggio attraverso l’antico sentiero fino alla chiesa del Santo. Sperone non manca di leggende , la più famosa è quella del Duca padrone del borgo. Pare che il signorotto possedesse un serpente che usava per uccidere i fidanzati delle donne di cui voleva, come dire? Approfittare. In tal modo faceva credere che i giovani erano stati vittime del morso delle vipere. I corpi dei malcapitati erano, poi, seppelliti in un campo di margheritoni. Ricerche effettuate nei dintorni portarono effettivamente al ritrovamento di una fossa comune colma di ossa e armi, luogo dove probabilmente venivano gettati i suoi nemici. Ne fecero un museo? Fu evocata la storia del borgo una volta tanto strategicamente importante? È stata mai valorizzata la processione anche come attrazione turistica (perché no?) Ma neanche a parlarne.
Possiamo considerare Sperone come il Balcone naturale della Marsica. Oggi non restano che mura, tetti e stanze vuote nell’attesa che qualcuno ne comprenda il vero valore. La sua torre si erge sulla cittadina di Gioia dei Marsi, dall’alto del Passo Sparnasio ed indica, in lontananza, il vecchio borgo. Oltre ai resti murari oggi c’è ancora un campo di margherite, forse lo stesso dove, come accennato, furono sepolti i nemici del sanguinario signore al tempo in cui Sperone prosperava ed era la vedetta della marsica orientale.
Per chi volesse visitare il posto, con attenzione, troverà le case del borgo vecchio esattamente sotto la torre, avvinghiate al pendio sottostante e collegate da stretti sentierini. Camminare tra le case, gli androni, le stalle, i fienili, le abitazioni è come vedere lo spaccato della vita di un secolo fa. Passeggiando tra i viottoli troviamo, uno di seguito all’altro, il forno, il fontanile, la bottega, il canile, il pollaio, gli orticelli, l’aia, un frutteto, la colombaia, la cisterna, l’abbeveratoio, la mangiatoia. Tutto è esposto all’occhio, dai pagliari alle case a due piani con la stalla sotto e la residenza familiare sopra. A Roma c’è il museo di Arti e tradizioni popolari dove, nell’enorme spazio espositivo, s’è tentato di ricostruire botteghe e attimi di vita d’un tempo. Sperone, al contrario ha la fortuna di essere un museo all’aperto da vivere, vedere, abitare e studiare.
Miglior storia l’ha avuta Rocca Calascio. Ancor prima di entrare nel paese si capisce perché tanti registi l’hanno scelta come set: è una scenografia naturale, magnifica. Dagli anni ottanta è stata utilizzata come ambientazione di vari film; Lady Hawke ne è stato il primo. A questo film sono seguiti Il Nome della Rosa con Sean Connery, Il viaggio della sposa e L’orizzonte degli eventi, lungometraggi italiani. La serie Rai su Padre Pio è stata ambientata qui e nel 2010, la rocca è visibile anche in alcune scene del film The American con George Clooney. Il castello, uno dei più alti d’Europa, ha avuto, nel corso dei secoli, il compito di sorveglianza del territorio circostante ed era collegato visivamente agli altri castelli d’Abruzzo. Pensate che usando di notte delle torce e di giorno specchi, venivano trasmessi messaggi che viaggiando attraverso la regione arrivavano alla costa. La sua forma è il risultato di una ristrutturazione del 1463, quando Antonio Todeschini della famiglia Piccolomini modificò la fortificazione costruendo le quattro torri e il maschio centrale. Dai suoi spalti si gode una vista mozzafiato sulla pianura sottostante e sulle cime più elevate. Tra gli ulteriori punti di interesse, la Chiesa di Santa Maria della Pietà, risalente al 1400 circa, voluta e costruita dai pastori come ringraziamento per l’intervento dei soldati dei Piccolomini contro dei briganti provenienti dallo Stato Pontificio (magari se avessero ringraziato pure i soldati male non sarebbe stato).
Aggrappati alla roccia i resti di Rocca Calascio sembrano sospesi nel tempo, dal terremoto del 1703. Contrariamente a tanti altri borghi, qui si sono dati da fare ed è possibile fermarsi in una delle locande per riposarsi e mangiare qualcosa dopo una passeggiata tra le viuzze cittadine o soggiornarvi perché il borgo è stato trasformato in hotel diffuso. Qui giova spiegare cosa si intende per “hotel diffuso” perché è ciò a cui dovrebbero mirare i tanti borghi abbandonati e userò le parole della rivista “Wall street viaggi”: “… In sostanza è definito come «un’impresa ricettiva alberghiera situata in un unico centro abitato, formata da più stabili vicini fra loro, con gestione unitaria e in grado di fornire servizi di standard alberghiero a tutti gli ospiti». L’albergo diffuso, come è evidente fin dal nome, è in primo luogo un albergo, anche se un albergo particolare, che non si costruisce, ma che nasce mettendo in rete case pre-esistenti. In altre parole l’albergo diffuso è un albergo orizzontale che si caratterizza per una serie di requisiti messi a punto dopo una lunga serie di esperienze sul campo avviate a partire dai primi anni ’80 in Friuli e Sardegna.” Chiaro il concetto? pensate a quanto lavoro si otterrebbe in estate e in inverno.
Lasciamo Rocca Calascio per dirigerci verso Morino Vecchio. Il borgo è posto su un colle nella Valle Roveto, accanto vi scorre il fiume Liri nella riserva naturale con la splendida cascata di “Zompo lo Schioppo”. Strano nome per una cascata. Si chiama così dal termine dialettale che indica un salto, ossia uno “Zompo” e dal rumore provocato dall’acqua che si riversa sulle rocce simile a quello di un fucile: lo “schioppo”. La cascata fu descritta dallo scritttore francese Alexandre Dumas in questi termini: “In fondo alla cerchia dei monti una stupefacente cascata sgorga dalla roccia… sembra quasi una striscia bianca e sinuosa che, con un salto di 150 piedi, cade in un bacino spumeggiante da cui fuoriesce un fiumicello argenteo che dopo aver serpeggiato per la valle va a gettarsi nel Liri sotto Morino. Tornando al Borgo fu citato in documenti storici per la prima volta nel 1089. Esisteva già nell’età del bronzo e fu inglobata dai Marsi intorno al V secolo a.C. . Divenne poi un municipio romano nella prima metà del periodo medio repubblicano. Nell’ultimo quarto del diciannovesimo secolo arrivò a contare più di mille abitanti: quanta storia in questo piccolo paese! Poi arrivò il terremoto del 1915 e con esso la fine di Morino. Per avere un’idea della portata della tragedia, basti pensare che nella vicina Avezzano, che contava allora 11208 abitanti, le vittime furono 10719! Ignazio Silone così descrisse l’evento: “I soffitti s’aprivano. In mezzo alla nebbia si vedevano ragazzi che, senza dire una parola, si dirigevano verso le finestre. Tutto è durato venti secondi, al massimo trenta. Quando la nebbia di gesso si è dissipata, c’era davanti a noi un mondo nuovo…” (Ignazio Silone, da “Le Figaro Littéraire” del 29 gennaio 1955).
La distruzione del paese ha fatto indicare Morino Vecchio come la “Pompei della Marsica”. Nel borgo abbandonato oggi restano in piedi costruzioni come l’Eremo della Madonna del Caùto o il Campanile della chiesa di Santa Maria Bambina, meta di qualche turista. Sono in corso diversi progetti di recupero ad opera dell’amministrazione comunale, di associazioni di volontari e di semplici cittadini che si impegnano a preservare questo gioiello della Marsica. Tra le stradine e le case abbandonate si organizzano iniziative culturali. Lungo il percorso cartelloni informativi con foto e ricordi della vita nel paese prima della scossa che l’ha distrutto. Attualmente è stato messo in sicurezza e dotato d’illuminazione. Nelle case diroccate sono ancora visibili gli antichi camini, i pavimenti e le volte affrescate.
Passeggiando tra le case, per le viuzze sulla collina, si arriva al suggestivo campanile della chiesa di Santa Maria Bambina. Dove una volta c’era l’altare della chiesa ora c’è una croce in ferro; da questo punto, la vista spazia sui monti Ernici. A pochi passi il palazzo Facchini e lì un antico forno completo nelle sue parti e due cisterne per la conservazione di olio e vino. Nel 2019 è nato un progetto di valorizzazione che prevedeva aree sosta e giardini tematici. L’intervento, possibile grazie al lavoro di volontari, è stato finanziato con il contributo della Regione Abruzzo, con i fondi PAR FSC 2007-13, per “Recuperare e rifunzionalizzare i detrattori ambientali e rafforzare la governance delle politiche ambientali”. Così sono stati creati alcuni percorsi e realizzati giardini di erbe officinali: tutto nell’ottica della valorizzazione del luogo, sospeso a metà tra storia e natura e quindi, luogo di interesse storico e paesaggistico. Lo scrittore e giornalista italiano Paolo Rumiz, in un articolo apparso su Repubblica, ha così descritto l’operazione: “Liberata dopo cent’anni dalla boscaglia che l’ha invasa, Morino vecchio va come un traghetto alla deriva. Il suo ponte di comando è abitato solo da fantasmi. Visto da lì l’Appennino lievita, svela il suo profilo lungo, oceanico. Tolti gli arbusti tutto è riapparso al suo posto, l’orologio fermo a quel gennaio. Con la luce del giorno, negli squarci dei muri, sarebbero visibilo travi, pezzi di mobilio, stoviglie. I segni della vita interrotta, come nel castello della Bella addormentata…” Oddio, seppur liriche, quattro belle parole messe in croce non si negano a nessuno. Quello che mi chiedo è se il recupero d’un borgo e di quello che storicamente ed etnicamente ha rappresentato deve limitarsi a una seppure meritevole coltura di giardinetti che, una volta visti trangugiando un panino e aver esclamato: “che bellini!” Rimangono lì, fini a sè stessi? Perché tornarci? Pare come se la montagna (e in Abruzzo il cielo sa se ce ne sono) avesse proverbialmente partorito il topolino. Nel gennaio del 2005 fu pubblicato nell’albo pretorio di Morino l’avviso pubblico che all’oggetto riportava – “Legge Regionale n° 13 del 17/03/2004 – Bando per l’ammissione alle “Provvidenze per il recupero e la valorizzazione dei Centri Storici”.- I soldi in posta erano pochi si poteva arrivare ad un massimo di trentamila euro… . Un tentativo degno di lode che quattordici anni dopo, nel 2019, dopo varie peripezie, pare essere sfociato nei giardinetti e alla loro inaugurazione in gran pompa.
Mi fermo qui: potrei ancora scrivere sui borghi di Meta Vecchio, Lecce Vecchio o San Vincenzo Valle Roveto ma mi domando ancora una volta se le lodevoli opere di rispristino di alcuni borghi Abruzzesi a cura di persone dalla buona volontà o di rari interventi pubblici servono a qualcosa così come sono realizzate. Prima di ristrutturare un borgo nessuno si pone la domanda: “Una volta visto perché tornarci?” Se si riesce a rispondere a questo quesito, probabilmente, posta mano a pala e cazzuola, si potrebbe dare “veramente” vita a tanti posti onorandoli degnamente e rendendoli utili alla comunità. Un saluto da un metro e mezzo.