Giuditta Tavani Arquati, eroina romana che donò la vita per Roma libera dai “papalini” e Capitale d’Italia
Il 3 febbraio di 150 anni fa la Città Eterna era proclamata Capitale del Regno d’Italia. Un risultato passato anche per il sacrifico di questa grande donna
“La Repubblica riconosce il giorno 17 marzo, data della proclamazione in Torino, nell’anno 1861, dell’Unità d’Italia, quale «Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera», allo scopo di ricordare e promuovere, nell’ambito di una didattica diffusa, i valori di cittadinanza, fondamento di una positiva convivenza civile, nonché di riaffermare e di consolidare l’identità nazionale attraverso il ricordo e la memoria civica” Il brano che ho citato è l’art. 1, comma 3, legge 23 novembre 2012, n.222 del Parlamento Italiano. Sembra quasi un editto sovranista vero? Forse questo termine genera confusione.
Il viaggio per raggiungere l’unità nazionale passò per mille vicende ma soprattutto si poté definire compiuto solo dopo la caduta dello Stato della Chiesa e l’arrivo dei garibaldini con la breccia di Porta Pia, episodio del Risorgimento che sancì l’annessione della Città Eterna al Regno d’Italia. L’anno successivo la capitale d’Italia fu trasferita da Roma a Firenze. Liberare Roma da un oppressore non è mai stata una cosa semplice. All’epoca dei fatti, impensabile, perché il Papa, che al tempo assommava in sé anche il potere temporale ed era Re dello stato della chiesa, non mollava botta, anzi lungi dall’essere magnanimamente pio, come nome gli imponeva, alimentò le ghigliottine del Santo Uffizio col sangue dei patrioti che anelavano alla libertà. Era il tempo dei carbonari Targhini e Montanari (decapitati a Piazza del Popolo), dei rivoluzionari Monti e Tognetti (anche loro ghigliottinati), dei continui attentati alle caserme dei zuavi papalini. Fino ad allora Roma era stata tenuta col pugno di ferro e vigeva il coprifuoco. Il capo della polizia colonnello Filippo Nardoni (ex galeotto) calcava nottetempo il selciato romano alla testa delle ronde che arrestavano e rinchiudevano in “fortezza” (Castel Sant’Angelo) i trasgressori che circolavano la sera dopo lo sparo del cannone.
L’inizio della annessione di Roma all’Italia passò per una vicenda che fu il prodromo alla Breccia di Porta Pia: l’eccidio di Villa Glori e quello che ne seguì. Ne voglio parlare perché non ci sarebbe stata Unità senza quell’accadimento. Ecco la vicenda. Un drappello di settantasei volontari guidati da Enrico Cairoli, la notte del 23 ottobre 1867 occupò un casale sui Monti Parioli: Villa Glori. Due volontari: Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, dei quali ho fatto cenno per la loro triste fine, fecero saltare, con una bomba, un’intera ala della Caserma Serristori sede degli zuavi papalini, uccidendone venticinque. A nulla valse la richiesta di grazia che Vittorio Emanuele II aveva inviato a Pio IX, papa Mastai Ferretti. Per farla breve i volontari di Villa Glori furono massacrati da circa 300 carabinieri (svizzeri, va detto) dell’esercito pontificio. Nello scontro persero la vita i fratelli Cairoli. Tra i superstiti Giulio Ajani (tenete a mente questo nome) e Pietro Luzzi entrambi poi giustiziati.
In questo quadro si inserisce la figura di Giuditta Tavani Arquati. Vi domanderete chi diavolo fosse, ebbene ora ve lo dico: Giuditta fu una dei membri più attivi di quel movimento clandestino di patrioti che tentò di liberare Roma dal dominio papale. In tre giorni, dal 23 al 25 ottobre 1867, Roma fu teatro di tre moti insurrezionali: il primo fallì in Campidoglio, il secondo a villa Glori e l’ultimo in Trastevere nel lanificio Ajani (ricordate il citato Giulio Ajani?), luogo che diventato il principale deposito di armi della congiura.
In via della Lungaretta 97, a Trastevere, al tempo di Pio IX, esisteva questo lanificio: la mattina del 25 ottobre 1867, quando Garibaldi prese Monterotondo, Giuditta Tavani Arquati, suo marito, il figlio dodicenne e una quarantina di patrioti, di cui 25 romani si erano riuniti nell’edificio che era stato trasformato in una fabbrica di bombe. Siccome i vigliacchi non mancano mai, una spia aveva avvisato l’autorità di polizia che un numeroso gruppo di ribelli armati s’era rifugiato nel lanificio di Giulio Ajani. Trecento zuavi e gendarmi guidati dal capitano Vinay e da Luigi Rossi della polizia pontificia circondarono un intero isolato a Trastevere.
Era l’ora di pranzo circa le dodici e trenta; Giuditta era occupata a sfamare gli insorti mentre il figlio di dodici anni, Antonio era di guardia. Fu lui a scorgere le guardie pontificie e a tirare una bomba che non sortì, però, un grande effetto. I papalini fecero fuoco dal campanile della chiesa delle sante Rufina e Seconda e dai padiglioni dell’ospedale di san Gallicano, gli assediati si difesero. Trascorsero un paio d’ore di colpi reciproci, poi, sopraggiunti i rinforzi e l’artiglieria, venne sfondato il portone del lanificio, i papalini assalirono i presenti all’arma bianca. Chi non riuscì a fuggire dai tetti morì sotto i colpi delle baionettate. Quello fu uno degli ultimi feroci capitoli della storia della Roma del Papa Re. Qualcuno riuscì a fuggire attraverso delle passerelle di legno che erano state poggiate tra due palazzi. Rimasero uccise nove persone, tra cui il marito di Giuditta Tavani Arquati. La donna incinta, con un figlio in braccio si pose tra i congiurati in fuga e le gli zuavi che non ebbero alcuna pietà: la assassinarono (figlio in braccio compreso) e infierirono su di lei con le baionette. Alcune testimonianze non ufficiali dell’epoca, riportano che i patrioti presi prigionieri avessero gridato agli zuavi “Fermi! Quella donna è incinta!” ricevendo la sprezzante risposta: “Vediamo se è vero!”, colpendo con le baionette il ventre della povera donna e finendola senza alcuna pietà.
Il regista Magni fece dire a Manfredi nei panni di Monsignor Colombo da Priverno, nel film “In nome del Papa Re” descrivendo l’assassinio della donna: “Ma come… l’hanno scannata come ‘na capra, j’hanno infierito a baionettate sul cadavere, oh! Una donna di quarantadue anni, gravida, che te vie’ incontro col figlioletto al collo…”
La storia di Giuditta è stata raccontata da storici militanti come Felice Cavallotti, Mario Paganetti e Paolo Mencacci, dai discendenti dell’eroina (Pietro Parboni Arquati) e da scrittori di cui l’ultimo è stato Claudio Fracassi, nel suo lavoro “La ribelle e il Papa Re”. Nel 1880 Carlo Ademollo la dipinse nel quadro “L’eccidio della famiglia Tavani Arquati”, morta sul pavimento, fra i gendarmi, con la pistola in mano e il figlio morto sul seno.
La targa sul portone del lanificio merita una storia a parte. Fu posta dalla Società operaia romana nel decennale della strage, alla quale si affiancò una Associazione democratica col nome dell’Arquati sciolta in seguito. Il busto, scolpito da Achille Della Bitta, fu inaugurato il 26 Ottobre 1879. Una curiosità: il velo che copriva il busto prima dell’inaugurazione fu fatto cadere dal cittadino Napoleone Barboni, asfaltista, che, nell’occasione, presentò i figli di Giuditta Tavani Arquati ai cittadini presenti. Nel 1925, l’allora governo, in omaggio ai Patti Lateranensi, cosa penso bene di fare? La fece ricoprire con la calce. Accadde che Spartaco Buffacchi uno scalpellino e ultimo presidente della disciolta associazione Tavani Arquati, nottetempo la ripulì, eroe anche lui.
Una eroina che ha dato la sua vita per l’Unità d’Italia. Roma le ha dedicata una targa sul luogo della strage e una piazza. La salma di Giuditta riposa nel Il Mausoleo Ossario Garibaldino sul Gianicolo nella località detta Colle del Pino e con lei gli eroi garibaldini. Nel quadriportico, quattro bracieri sui cui piedistalli in travertino sono ricordate le battaglie più significative per la liberazione di Roma. Se in un giro turistico a Roma passate da quelle parti lasciate un fiore sulla sua tomba. Si è portati a pensare che furono solo gli uomini a combattere per l’unità d’Italia ma non dobbiamo dimenticare le donne. Giuditta ne fu un esempio. Quante altre caddero nella speranza di offrire ai loro figli un mondo migliore? D’Azeglio disse “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli Italiani”. Questa frase ricorre ogni volta che si celebra l’Unità d’Italia. All’epoca voleva intendere che tutti i cittadini di tutti gli statarelli che componevano la nostra nazione dovevano, alla fine, sentirsi un unico popolo, non solo ma liberarsi dai vizi dell’indisciplina, della irresponsabilità, pusillanimità e disonestà. Pensate che molti patrioti del Risorgimento ritenevano queste essere le cause del declino dell’Italia. Massimo D’Azeglio voleva che fosse instillato nel popolo quelle che egli chiamava “doti virili”.
Il concetto di Unità d’Italia dovrebbe rivolgere il nostro pensiero a coloro che hanno dato la vita per un futuro diverso, onesto e incorrotto onorando, cosi’, il loro sacrificio. “A egregie cose il forte animo accendono L’urne de’ forti, o Pindemonte..” Scrisse Foscolo nel poema “I sepolcri”: il sacrificio di tanti patrioti è stata solo una illusione? Un saluto da un metro e mezzo.