I “Briganti” e l’Abruzzo dopo l’Unità d’Italia stretti fra Savoia, Chiesa e Borbone. Le loro strade oggi sono cammini in panorami fantastici
Una delle piaghe che afflissero per secoli la penisola italiana fu quella del brigantaggio. All’epoca i briganti erano una sorta di Robin Hood autistici che rubavano ai ricchi per donare a sé stessi. Molti di essi erano considerati quasi delle rock star.
Le autorità dell’epoca combatterono strenuamente il problema. Papa Sisto V Peretti affrontò la cosa talmente a brutto muso che, grazie ai suoi patiboli, ne ebbe il sopravvento spedendo “ad patres” decine se non centinaia di birbaccioni. Tra il 1585 ed il 1590 davanti al tribunale del Governatore di Roma, Santa Romana Chiesa celebrò quarantanove processi contro i banditi tutti finiti a colpi di mannaia. Ma ecco un aneddoto:
Il Colosseo, in quei tempi era l’inespugnabile luogo di ritrovo dei briganti. Papa Sisto, travestito da viandante, vi entrò di notte, con una grossa fiasca di vino precedentemente drogato, chiedendo ai banditi ospitalità ed offrendo la bevanda. Inutile dire che questi ne tracannarono tutto il contenuto e caddero addormentati. Ad un suo cenno le guardie, che erano appostate nei paraggi, catturarono tutti. All’alba i banditi penzolavano dalle forche. Purtroppo dopo la morte del pontefice tutto ricominciò da capo.
Onde fornire una idea della gravità della situazione e quanto erano ben considerati i briganti basti pensare che Alexandre Dumas, nella sua celeberrima opera “Il Conte di Montecristo”, immagina come braccio destro di Edmond Dantes, il protagonista, nientemeno che un bandito: Luigi Vampa. La figura gli fu ispirata dal bandito Gasparone (Antonio Gasbarrone) che imperversò nel Molise e nell’Abruzzo e al quale fece visita nel 1835 durante la detenzione nel carcere di Civitavecchia.
BRIGANTI IN ABRUZZO
Il territorio abruzzese, ricco di montagne, foreste, caverne e anfratti ben si disponeva ad ospitare bande di briganti. Lo sapeva l’esercito sabaudo che tanti ceffoni prese dai banditi trovandosi alle prese con una sorta di Afghanistan rurale. D’altronde, come ho accennato, molti di questi fuorilegge erano anche ben visti dalla popolazione tanto che nel 1863 il Generale Govone ebbe a dire: ”i cafoni veggono nel brigante il vindice dei torti che la società loro infligge”
CHI ERA GOVONE?
Giuseppe Govone era un po’ l’enfant prodige dell’esercito piemontese. Giovanissimo a trentacinque anni era già generale. Aveva partecipato alla guerra di Crimea e alle tre guerre di indipendenza. Partecipò alla carica della cavalleria britannica a Balaklava, si distinse a Custoza e fu pure il fondatore del Servizio Segreto Militare Piemontese. L’alto comando sabaudo pensò di inviarlo nel 1861 con la brigata Forlì a L’Aquila per menar le mani con i briganti ma finì per darsele di santa ragione con Enrico Cialdini che aveva preso il comando generale delle operazioni contro il Brigantaggio. Nella sua carriera Govone trattò i termini dell’alleanza con la Prussia addirittura con il cancelliere Otto von Bismarck (quello della bistecca) e come se non bastasse, divenne anche parlamentare. Insomma era talmente precoce che morì a 46 anni, qualcuno dice suicidandosi, cosa possibile, tanto non aveva più niente da fare.
CHI ERANO I BRIGANTI?
La Marsica è ricca di storie di briganti. Il suo territorio stabiliva il confine tra Stato Pontificio e Regno Borbonico. I briganti vivevano in mezzo al guado, sul confine per passare da una parte all’altra a seconda della minaccia. Molti di loro combattevano contro i piemontesi i quali, oltretutto, costringevano il popolo a entrare nell’esercito.
Prendo spunto dalla figura di uno di costoro: Pasquale Mancini soprannominato “Mercante” che era un bracciante di Pacentro. Assieme a Luca Pastore di Caramanico misero insieme, nei territori intorno alla Majella, una grossa banda composta da evasi, disertori e contadini. Le terre nei tenimenti di Pacentro e Roccacasale, comuni a ridosso della montagna, divennero, così, oggetto di omicidi, sequestri, furti ed estorsioni.
Francesco Saverio Sipari, scrittore e politico abruzzese nonché sindaco di Pescasseroli, ebbe a dire: “Il Brigantaggio non è che miseria , e miseria estrema , disperata”.
Questa è la chiave di lettura del problema. L’origine del fenomeno, infatti è nella miseria e nei continui soprusi che il popolo contadino doveva sopportare da parte di pochi ricchi padroni. Ma poi, diciamo la verità, ‘sti poveri abruzzesi s’erano dovuti sorbire da una parte i borboni e dall’altra i piemontesi con le loro truppe sabaude. Ad entrambi gli occupanti, cosa mai gliene importava di quella povertà con cui larghissimi strati sociali erano costretti a confrontarsi quotidianamente?
Così al brigantaggio si sovrapposero anche motivi politici per cui, non sapendo come uscire da quella miserrima situazione i briganti a volte combattevano anche a favore degli occupanti o contro. Curiosamente questi gruppi organizzati di banditi sovente si scontravano con le truppe regolari che avevano la peggio anche perché i capitani dei banditi erano spesso ex-comandanti di compagnie di ventura che si avvalevano di delinquenti nei loro ranghi.
L’ULTIMO DEI BRIGANTI
Si chiamava Croce di Tola, soprannominato Crucitte. Era ricercato sui monti della Maiella sin dal mese di ottobre del 1860. Nessuno era riuscito a catturarlo. Anche lui, come tanti, era figlio della miseria ed era diventato brigante per necessità collaborando con molti famosi capi banda tra cui Nunzio Tamburrini e Domenico Valerio detto Cannone. Per undici anni visse alla macchia una vita da fuggiasco sempre braccato dai soldati.
Sebbene molte bande erano oramai estinte e molti latitanti si consegnavano alle autorità o cercavano di fuggire all’estero lui rimaneva sulle montagne. A mettergli le manette ci pensò un brigadiere dei carabinieri: Chiaffredo Bergia.
LA MORTE
La morte del bandito è cosa curiosa: passò a miglior vita in carcere a L’Aquila ma non si saprà mai come. Non ci sono sue immagini e tantomeno l’atto di morte. Il foglio del registro dei detenuti conservato presso l’archivio di stato risulta mancante come se la pagina fosse stata strappata per cancellare ogni traccia di Croce. Di lui rimangono solo le leggende di quando il brigante Crucitte era il bandito imprendibile dei monti d’Abruzzo.
IL CAMMINO DI BRIGANTI
I briganti misero a dura prova soprattutto le truppe sabaude la cui occupazione proprio non gli andava giù, ma da quache parte dovevano pur trovare riparo e così scelsero come rifugio contro l’esercito dei Savoia, i territori della Marsica e del Cicolano: boschi e montagne dove potevano nascondersi e spostarsi a piedi liberamente da un lato all’altro del confine, a seconda della convenienza. Erano i luoghi della famigerata banda di Cartore. Quei posti sono oggi percorribili e così s’è attivata una nuova forma di turismo alternativo.
Dopo tanti anni si può esplorare la loro strada, viaggiando a piedi da paese a paese e magari dormendo in tenda, cosa che, onestamente, non farei nemmeno sotto tortura: non sono una persona ginnica e atletica e amo gli agi e tutti i comfort possibili e immaginabili.
LA PASSEGGIATA
Se c’è chi se ne va a fare una bella passeggiata lungo il cammino di Santiago di Compostela all’estero, altri, meno religiosi ma più patriottici scelgono di percorrere l’antica strada dei briganti abruzzesi.
Se avete tempo e volete affrontare l’impresa ve la sfangate in sette giorni seguendo le orme dei briganti tra la Val de Varri, la Valle del Salto e le pendici del Monte Velino.
Lo segnalo per coloro che amano il trekking. Una settimana a passeggio da paese a paese su un percorso organizzato e ben percorribile. Anche io ne sono stato incuriosito, d’altro canto, piaccia o meno, è tutta salute e cultura. Insomma è una valida alternativa, seppure più faticosa, della Francigena. Devo essere onesto: chi vi scrive ha provato il percorso. S’è recato alla prima tappa, ha valutato la cosa e se n’è tornato a casa, anche se a malincuore: come detto, non sono uno sportivo.
Tolto lo stridente gnaulìo della presentatrice che è ineliminabile e inascoltabile, vi propongo una godibile puntata dell’emittente di stato su questo argomento.
JOSÈ BORGES
“In questo remoto casolare l’8 dicembre 1861, s’infranse l’illusione del gen. José Borges e dei suoi compagni di restituire a Francesco II il Regno delle Due Sicile. Catturati da soldati italiani e guardie nazionali di Sante Marie al comando di Enrico Franchini furono fucilati lo stesso giorno a Tagliacozzo. Riposino in pace”
Questa scritta campeggia su una targa posta nel luogo dove il generale Borjes e i suoi uomini furono catturati. Ma chi era costui? In sostanza era uno che non si faceva gli affari suoi… .
L’UOMO E LE SUE CAUSE (PERSE)
Nacque in Catalogna e invece di rimanere laggiù iniziò a sbracciarsi per l’Europa. Si arruolò nell’esercito di Don Carlos, divenne comandante ma dovette fuggire in Francia dopo la disfatta dei carlisti.
Successivamente il Nostro Eroe pensò di presentare i suoi servigi allo Stato Pontificio ma siccome i preti non li freghi questi gli risposero sorridendo con un bel sacerdotale “no grazie”.
ANCORA NON BASTA…
Tornato in Francia fu invitato dal generale Clary a servire il governo borbonico in esilio allo scopo di restaurare il regno. Gli raccontò un mucchio di storie sulle forze che lo avrebbero atteso in Italia e ti pare che poteva esimersi dall’abbracciare una ulteriore causa persa? Ma anche no.
Così lo ritroviamo in Calabria a Capo Spartivento dove non c’era nessuno che se lo filava e si rese conto delle frescacce che gli aveva ammannito il buon Clary.
Non si diede per vinto e unitosi al bandito Mittiga tentò di assaltare il comune di Platì ma pure ‘sta volta gli andò male.
Achille Caracciolo, un ufficiale borbonico dirà in un interrogatorio riferendosi al generale Borges: “… al vedere l’inganno in cui era stato tratto, e che invece di far parte di un corpo d’armata non si cercava in sostanza che di dar capi alla gente che si trovava in Calabria briganteggiando e infestando quelle contrade specialmente in Sila, mi risolvetti bientosto ad abbandonare il Borjes, non essendo del proprio onore di far il brigante“.
IN FUGA
Il Nostro dovette scappare in Basilicata dove si alleò con un altro brigante: Crocco, il quale, poi, lo abbandonò (e ti pareva…). Con pochi uomini e braccato dall’esercito tentò di raggiungere Roma. Arrivato quasi al confine tra Abruzzo e Lazio ordinò ai suoi uomini di fare una sosta nel casale Mastroddi, tra Sante Marie (vedi il cammino di briganti) e Castelvecchio. Non lo avesse mai fatto: arrivarono i bersaglieri allertati da una spiata e dopo uno scontro a fuoco li arrestarono portandoli a Tagliacozzo per essere fucilati. Poco prima di morire, il generale gridò “L’ultima nostra ora è giunta, moriamo da forti.“. Che ci volete fare era un irriducibile ottimista… .
FU VERA GLORIA?
Con quella cattura Franchini ottenne una bella medaglia al valor militare con la seguente motivazione: “Per le ottime disposizioni date e per l’insigne valore dimostrato durante tutta l’operazione che fruttò l’arresto del capobanda spagnolo Borjes e di 22 suoi compagni“. Diciamocelo: Borjes non si poteva fare i fatti suoi e rimanere in Francia a fare quel che faceva? Invece no, in Abruzzo doveva andare. Una cosa è certa fu tradito un po’ da tutti (ci sarà stato pure un motivo…), si dice persino dai bersaglieri che lo catturarono. Pare gli avessero promesso salva la vita in caso di resa e così fece finendo… fucilato! Ancora si disquisisce sulla sua onorabilità e se fosse stato o meno un brigante. Consentitemi una considerazione: qualcuno, oggi, lo vuole considerare un eroe, ma di cosa? L’esagitato generale era venuto in Italia per conquistare terra italiana e questo è quanto meno esecrabile!
POVERO ABRUZZO…
Il povero Abruzzo fu spartito come le vesti di Gesù Cristo. La sua suddivisione in Abruzzo Citeriore, Abruzzo Ulteriore primo e Ulteriore secondo; furono preda dei Borboni, dei Savoia e perfino, in parte, dallo Stato della Chiesa. I briganti che già se la vedevano con una fame nera, furono strumentalizzati per fini politici (e territoriali) dalle compagini settentrionali e meridionali. Il risultato fu, poi, che le compagnie banditesche, stufe, iniziarono a far di testa loro e così fu fino alla unificazione dell’Italia. Dalle vicende legate al brigantaggio abruzzese si evince chiaramente come è meglio lasciar perdere questo popolo.
LA TAVOLA DEI BRIGANTI
Sulla Majella esiste un insieme di lastroni calcarei sui qual i briganti incisero nomi e messaggi a testimoniare la loro presenza. Questa è la Tavola dei Briganti. I bravi piemontesi, nel 1866, al fine di arginare il brigantaggio, costruirono un avamposto fortificato denominato Blockhaus. Tanto erano spaventati i banditi da questa presenza che, spesso di notte, per deridere i soldati piemontesi, incidevano alcuni messaggi antiunitari. Uno dei più celebri? “Leggete la mia memoria per i cari lettori. Nel 1820 nacque Vittorio Emanuele Re d’Italia. Primo il 60 era il regno dei fiori, ora è il regno della miseria”.
Non ho citato in questa mia trattazione gli innumerevoli banditi che fecero letteralmente impazzire le varie truppe occupanti la regione: sono troppi e tutti motivati e decisi. Il brigantaggio in Abruzzo fu una piaga? Certamente però lo furono anche Borboni e Sabaudi che intendevano fare e disfare su un territorio che non gli competeva e sulle spalle di un popolo che non era il loro… .
Un saluto