In una appassionata lettera al fratello Ignazio Silone racconta la tragedia del terremoto: riflessioni della scrittrice Maria Assunta Oddi
LUCO DEI MARSI – Il terremoto della Marsica, che il 13 gennaio 1915 sconvolse tragicamente il destino dei sopravvissuti nella città di Avezzano e degli altri comuni abruzzesi, cambiò radicalmente anche la vita di Ignazio Silone, protagonista della letteratura internazionale del novecento.
Significativo è il racconto che ne fa nella lettera inviata al fratello Romolo dopo alcuni mesi dall’evento sismico, dopo aver lasciato il seminario di Chieti, e quella che seguì in “Uscita di Sicurezza”.
Inizia per Silone un periodo di peregrinazioni da un luogo all’altro che si fa metafora esistenziale del viaggio alla ricerca di una propria identità: “Nel 1915 un violento terremoto aveva distrutto buona parte del nostro circondario e in trenta secondi ucciso circa tremila persone. Quel che più mi sorprese fu di osservare con quanta naturalezza i paesani accettassero la tremenda catastrofe. In una contrada come la nostra, in cui tante ingiustizie rimanevano impunite, la frequenza dei terremoti appariva un fatto talmente plausibile da non richiedere ulteriori spiegazioni. C’era anzi da stupirsi che i terremoti non capitassero più spesso. Nel terremoto morivano infatti ricchi e poveri, istruiti e analfabeti, autorità e sudditi. Nel terremoto la natura realizzava quello che la legge a parole prometteva e nei fatti non manteneva: l’uguaglianza. Uguaglianza effimera. Passata la paura, la disgrazia collettiva si trasformava in occasione di più larghe ingiustizie “(da Uscita di Sicurezza).
Silone aveva voluto esprimere in questa descrizione una realtà sociale ed etica resa aspra e dura dalle ingiustizie impunite e dalle sopraffazioni dei potenti sui “cafoni” rappresentati da umili pastori e braccianti agricoli. Una condizione umana quella del contadino “senza terra” fatta di sofferenza, di solitudine morale, di emarginazione sociale ma soprattutto di rassegnazione come in seguito dirà: “Il destino è un’invenzione della gente fiacca e rassegnata”.
Dal desiderio di ricostruzione coscienziale dello “stato di fatto” al fine di modificare la desolante e immutata realtà del mondo dei suoi avi Silone fece dei suoi scritti strumento di riscatto invitando alla resistenza e alla lotta per la libertà: “L’uomo che pensa con la propria testa e conserva il suo animo incorrotto è libero. L’uomo che lotta per ciò che ritiene giusto, è libero. Per contro, si può vivere nel paese più democratico della terra, ma se si è interiormente pigri, ottusi, servili, non si è liberi; malgrado l’assenza di ogni coercizione violenta, si è schiavi” (da Vino e Pane).
Va sempre rinnovata la testimonianza di chi ha vissuto particolari periodi storici con un impegno letterario e politico affinché sia edificante per le nuove generazioni nella costruzione di un avvenire migliore.
Ero appena adolescente quando la mia insegnante di lettere nella Scuola Media, durante l’ora settimanale dedicata alla narrativa, propose a noi ragazzi il testo antologico titolato “Paese dell’anima” che conteneva una selezione dei brani tratti dalle opere più significative di Ignazio Silone.
Durante la lettura dei testi scelti da “Fontamara”, da “Il seme sotto la neve”, da “Vino e pane” al “Segreto di Luca” rimasi affascinata e incuriosita.
Tra questi, l’episodio che ancora ricordo, è quello che narrava la sua infanzia segnata dalla tragedia del terremoto. Pur non avendo le conoscenze adeguate a comprendere appieno la portata rivoluzionaria del suo pensiero, ritrovavo in quelle parole la storia della mia gente. Del resto, anche molti anni dopo, nemmeno presso l’Ateneo aquilano le opere di Silone erano considerate fondamentali per la formazione dei giovani. Si evidenziava la mancanza di una bibliografia capace di documentare gli studi.
Oggi molti, fortunatamente, e non solo nell’ambito prettamente culturale, sono convinti che nell’opera siloniana le radici del territorio marsicano si aprono ad ogni luogo della terra dove ancora si ha sete di giustizia e di uguaglianza sociale. Come mostrano le infinite traduzioni di Fontamara nelle varie lingue: “La speranza degli infelici rinasce sempre”. Rimasi sorpresa quando come docente un’alunna proveniente dall’Iran mi disse di aver letto nella sua lingua madre “Fontamara”. Pensai che i valori perenni delle virtù e delle civiltà arcaiche potessero consentire domani l’avvento di un nuovo umanesimo illuminato dallo spirito di pace e fraternità.
Silone non visse il terremoto solo dal punto di vista storico e letterario, non fu intellettuale privo di vissuto personale. La sua filosofia non è analisi aprioristica di un percorso virtuale ma esperienza autobiografica di carne e sangue, di delusioni e rinnovate speranze, di affetti ritrovati e perduti legami. In una prossimità sconvolta da catastrofi naturali, dalle guerre mondiali, dalla rivendicazione politica di un comunismo aperto all’Europa occidentale e alle sue radici religiose, dall’Internazionale considerata a livello ideologico tirannica e burocratica, Silone pone il senso non solo delle sue “Parole” e del suo “Agire” ma del suo “Sentire”: “La perdita di mia madre nel terremoto fu un dolore terribile ma era stata causata da una calamità naturale. La prigionia e la morte di mio fratello sono rimaste il mio tormento intimo, perché non sarebbero accadute se non fosse stato per me. Perciò di Romolo non ho quasi mai parlato. E’ un genere di dolore difficile da comunicare” (Darina Silone, Le ultime ore di Ignazio Silone in Severina).
La grandezza intramontabile di Silone artista e uomo è proprio nel narrare il dolore individuale e collettivo per sfuggire al suo dominio.
Rielaborando il percorso del suo “essere” concreto con errori, cadute, vittorie e sconfitte, Ignazio riordina i propri ricordi per guarire dalla disperazione. Nelle sue pagine sia quelle intime che pubbliche, la sua anima rinasce nel riconoscimento del vero sé. Non sfugge alla quotidianità più atroce in lui c’è posto, malgrado tutto, per i bei sogni tramite l’espressione letteraria che condivide con i lettori nella concezione di un’amicizia pura e disinteressata come in questa commovente lettera:
“Pescina 25 maggio 1915,
Carissimo fratello, ogni disgrazia è seguita da disgrazie! E il terremoto ha voluto dietro di sé la guerra, e la guerra vorrà ancora! … chi sa cosa vorrà? Ed io per la guerra sono dovuto tornare a Pescina, ché il Seminario di Chieti l’ha requisito il governo come Ospedale Militare. Ahimè! Son tornato a Pescina, ho rivisto con le lagrime agli occhi le orride macerie; sono ripassato tra le misere capanne, coperte alcune da pochi cenci come i primi giorni, dove vive con una indistinzione orribile di sesso, età e condizione la gente povera. Ho rivisto anche la nostra casa dove vidi, con gli occhi esausti di piangere, estrarre la nostra madre cerea, disfatta. Ora il suo cadavere è seppellito eppure anche là mi parve uscisse una voce. Forse l’ombra di nostra madre ora abita quelle macerie inconscia della nostra sorte pare che chiami a stringerci nel suo seno. Ho rivisto il luogo dove tu fortunatamente fosti scavato. Ho rivisto tutto …
Baci affettuosissimi
Secondo (Secondo Tranquilli pseudonimo di Ignazio Silone)
(Archivio Centrale dello Stato-Roma-Ufficio Servizi Speciali- Terremoto della Marsica, 13 gennaio 1915)
Un’epistola, questa, dove rivive “La corrispondenza di amorosi sensi” di foscoliana memoria a confermare l’appartenenza di tutti ad un’unica umanità fonte di dolore ma anche di universale bellezza.
Maria Assunta Oddi