Irriverente, satirico e povero in canna. La storia di “Gaetanaccio” il burattinaio romano che sfidò il potere e che dette vita al mito di “Rugantino”
Era la fine del Settecento. Roma era governata dal potere temporale del papato e in balìa di una nobiltà spesso corrotta. In questo contesto, in Borgo, il rione attorno al “Cuppolone”, nasce da genitori che stavano ai quattrini come l’acqua santa al diavolo, Gaetano Santangelo.
Divenne noto, poi, in tutta la città come Gaetanaccio il burattinaio o meglio “Ghetanaccio”. Era di salute cagionevole, esile e dall’aspetto tutt’altro che florido. Batteva le strade della città portandosi sul groppone una sorta di casotto di legno assieme a dei pupazzi che si costruiva da solo. Fu in pratica l’inventore di quella struttura in legno che ancora oggi usano i burattinai.
Il Ricordo di Ghetanaccio
La figura di Ghetanaccio è sopravvissuta ai secoli grazie alle opere di due poeti dialettali romani, Giggi Zanazzo e Filippo Chiappini. Individuarono nel burattinaio di rione Borgo il simbolo dell’arguzia popolaresca della Roma papalina. Un’arguzia che nascondeva miseria, fame e povertà, ma sempre pronta a caricarsi sulle spalle il peso del proprio destino. Così lo descrive Zanazzo: “Arto, palido, vestito cor un sacchetto de cottonina e con un baretto co’ la visiera che je copriva la capoccia: e una fame, poveraccio, che se la vedeva coll’occhi”.
Chiappini, inoltre: “Egli fu di complessione piuttosto gracile, non ebbe un pelo sul viso, e sulle sue gote mai non apparvero i colori della salute; fin dalla sua gioventù cominciò ad essere tossicoloso, e questo malanno con l’andare del tempo gli si andò sempre aumentando, talmente che alcune volte gl’impediva affatto di vociferare. Ciò non ostante, egli si strascinava per la città col suo casotto sulle spalle anche in mezzo ai rigori dell’inverno, poiché senza ciò sarebbe mancato il pane alla sua famiglia.”
LO SPETTACOLO
Giunto in un posto di suo gradimento piazzava baracca e burattini iniziando le sue rappresentazioni. Il popolo d’allora lo stava a guardare a bocca aperta. Sapeva dare spettacolo: imitava voci, i versi degli animali. Conosceva molti dialetti e sapeva trovare il lato ridicolo in tutto. Una cosa, però, attirava la gente: Le satire. Le infilava nelle commediole che scriveva da solo, denunciando scandali, raccontando pettegolezzi o situazioni in cui si era trovato personalmente. Era una sorta di Pasquino in versione teatrale. Il suo casotto era la gogna di tutti coloro che avevano fatto una ingiustizia. Nemmeno il Governo si sottraeva ai suoi colpi contro il quale lanciava sovente le sue satire. Non si curava di cosa potesse accadergli! Se lo portavano in prigione ci andava anche volentieri, soprattutto se s’era levato un sasso dalla scarpa.
Introdusse nelle sue commedie anche Pulcinella. Lo faceva parlare per mezzo della pivetta. Era uno strumento formato da due pezzi di latta riuniti da un cordone; attraverso ai quali passando la voce, acquista un suono stridulo e ridicolo. Sebbene Ghetanaccio fosse abilissimo nel ficcarsi in gola l’attrezzo più d’una volta gli s’ incastrò e dovette ricorrere al medico.
RUGANTINO
A lui si deve, in pratica, quello che fu il personaggio simbolo di Roma: Rugantino. La celebre maschera carnevalesca era probabilmente già nota, ma fu proprio lui a renderla una pop star. Grazie alla strafottenza del bullo di Trastevere (il nome deriva dal romanesco “ruganza” cioè “arroganza) portava in scena tutte le contraddizioni dell’epoca sia dei nobili che dei prelati, ricchi e incuranti del popolo.
Il suo era uno spirito plebeo che non abbassava la testa di fronte ai soprusi ma li trasformava in sberleffi e soprattutto in una critica sociale. Costantino Maes nella sua indimenticabile opera: “Curiosità Romane” dice del burattinaio: “ Gaetanaccio rappresentava il potere, allora sì compresso in Roma, dell’opinione pubblica; la stampa aveva la mordacchia, ma Gaetanaccio parlava per tutti. Non la perdonava a nessuno, nè a monsignori, nè a cardinali, nè al Papa; ed arditamente piantava il suo casotto ambulante sotto le finestre di coloro, che aveva scelti a bersaglio delle sue satire. Onde spesso, spesso andava in prigione, ed era questa la migliore sua réclame”
LA SATIRA
L’irriverenza costò a Ghetanaccio anche frequenti incarcerazioni, ma nonostante tutto fu uno dei burattinai più chiesti e ricercati dell’epoca. Sono tantissime le sue rappresentazioni irriguardose nei confronti di nobiltà e clero. Il suo personaggio principale era Rugantino, una maschera romanesca che, nonostante fosse già conosciuta da tempo, deve proprio al nostro burattinaio la sua notorietà.
Ghetanaccio e l’ambasciatore
Una volta durante la ricorrenza del Carnevale fu invitato a palazzo dall’Ambasciatore di Francia. Conoscendolo si raccomandò di non esagerare con la satira e soprattutto di non fare “rumori con la bocca” (faceva pernacchie rumorosissime).
Ghetanaccio gli disse di stare tranquillo e che col suo permesso ne avrebbe fatta una sola “di pernacchia”. L’Ambasciatore acconsentì. Iniziò lo spettacolo, il salone dell’Ambasciatore era pieno di cardinali, prelati, nobili, principi ecc. Durante la rappresentazione il banditore di gala, dopo un grande inchino e con voce squillante, annuncia l’entrata in sala di: “Sua eccellenza l’ambasciatore di Francia!”. Non riuscì a terminare la frase che si udì una pernacchia da far rintronare tutti i vetri del salone. L’Ambasciatore, infuriato, si rivolse la burattinaio: – Mascalzone!..Questa è la promessa?!…-. Questi rispose candidamente: – Scusi eccellenza, ma eravamo d’accordo che ‘na pernacchia la potevo fà…-. L’Ambasciatore allora: – Ma proprio in quel momento?– E Ghetanaccio: – beh! però ce stava bene.-.
Nei suoi spettacoli, ricorda Zanazzo, Pulcinella domandava a Rugantino: “Dimme un po’ Rugantì, ma pperchè li signori danno a bbalia li fiji?” e Rugantino: “Per imparaje da regazzini a ssucchià’ er sangue de la povera ggente.”
LA FAME
Oltre ai tanti problemi creati dalle sue rappresentazioni satiriche, ci si mise Papa Leone XII quando nel 1825, in occasione dell’Anno Santo, proibì ogni spettacolo. Ghetanaccio fu costretto a sospendere le rappresentazioni, sua unica fonte di guadagno. Cominciò, allora, a vendere corone del rosario ma non ci guadagnò un centesimo. Ridotto a chiedere l’elemosina, peggiorò la sua già precaria salute negli anni seguenti.
Un giorno di quell’anno malaugurato, non potendo comperare cibo per la famiglia, impegnò i burattini da un panettiere di Borgo Vecchio. Scaduto il periodo del pegno andò a riscattarli. Trovò i suoi attori cosi mal ridotti da non poter più essere usati. Litigò con il negoziante e lo citò avanti al presidente del rione Borgo, quale responsabile del danno e chiedendo un risarcimento.
La causa
Sostenne da solo la sua causa ed ecco la perorazione:
“Sapientissimo giudice osservate in che modo questo perfido gricio ha ridotto i miei capitali. La prima donna non ci ha più la testa, l’ amorosa è tutta tarlata, il padre nobile pare fritto nella padella … Sapientissimo giudice, questo birbone m’ha assassinato, e io spero che voi lo condannerete”.
Il presidente non condannò l’orzarolo, ma mosso a pietà del burattinaio gli fece ottenere un’elargizione di denaro grazie alla quale ricostruì il suo casotto e rimise a nuovo la compagnia.
Cosa è l’ “Orzarolo” e cosa è il “Gricio”
Nel suo vocabolario Romanesco, Chiappini descrive così l’Orzarolo:
“Venditore di pane, pasta, farina, civaie, olio, sapone, stoviglie e persino di zaganelle e petardi. Gli orzaroli son quasi tutti dell’alta Lombardia; sono uomini industriosi, attaccatissimi al denaro; per lo più vivono celibi per economia. Mangiano tenendo il piatto nel cassetto del bancone; se mentre mangiano entra uno in bottega, spingono dentro il cassetto, balzano in piedi e domandano: “Che ci vuole?”. Con questo metodo scansano il pericolo di dover dire “Favorisca” a chicchessia”.
Per proverbiar l’avarizia degli orzaroli raccontano che un orzarolo la sera diceva ai figli: “Chi stasera non cena avrà in regalo un baiocco” – Io! Io! gridavano i ragazzini e, preso il baiocco, se ne andavano a letto senza mangiare. La mattina, al primo svegliarsi, essi chiedevano la colazione. Allora il padre: “Chi stamattina vuò far colazione deve dare un baiocco”. Que’ poveri marmocchi che avevano una fame da lupi, restituivano il baiocco che avevano preso la sera avanti, e così l’avarone con questo giochetto risparmiava di tempo in tempo una cena”. Vedi: Gricio. [Chiappini]. Per chi lo volesse sapere, l’orzarolo era chiamato “gricio” perché quasi sempre proveniva da quella parte della Valtellina abitata dai Grigioni.
LA FINE DI GHETANACCIO
La tubercolosi se lo portò via nel 1832 all’età di circa cinquant’anni nell’Ospedale di Santo Spirito. Un lavoro teatrale lo commemora oggi: la commedia omonima scritta da Luigi Magni. Nel 1978, Gigi Proietti la diresse e rappresentò al teatro Brancaccio di Roma.
Un appunto da un innammorato di Roma (io). Ricordate: quando va in scena Rugantino, piaccia o meno, è sempre commemorata anche la memoria del burattinaio romano Gaetano Santangelo detto Ghetanaccio. Oddio fa eccezione la versione di Adriano Celentano che grida vendetta al Cielo e che è quasi un insulto. Termino l’articolo con le parole di Filippo Chiappini: “Così finì Gaetanaccio, del quale fu detto che se avesse studiato, coltivando in particolar modo l’arte drammatica, avrebbe potuto lasciar di sé memoria durevole; ma io sono d’opinione che il suo ingegno, sottomesso alle regole dell’arte, avrebbe perduto quegli scatti naturali che lo resero singolare.“.
Un saluto da un metro e mezzo di distanza.