La storia dei monumenti della Città Eterna raccontata con gli Aneddoti Romani
Roma è conosciuta come la Città Eterna: la sua storia attraversa millenni e le strade, le piazze e i suoi ponti sono pieni delle tracce del suo glorioso passato. Naturalmente sono tante le storie e le leggende che aleggiano sull’Urbe e voglio raccontarvene qualcuna.
Nell’Urbe ogni pietra nasconde un aneddoto o una sua storia o meglio è proprio il romano stesso che ama raccontare aneddoti. Il direttore di questo giornale mi ha definito una volta “cantastorie di Roma” (all’incirca), pertanto continuo a cantarne la storia nella speranza vi sia gradita e pigliatevela con lui se la cosa non vi garba.
Ai romani, dicevo, piace narrare i retroscena di qualsiasi cosa finanche della propria nonna. Potevano mai fare eccezione i monumenti, gli antichi palazzi o le fontane della Capitale? Ascoltiamo quello che hanno da dirci… .
IL PULCIN DELLA MINERVA
Iniziamo da questo piccolo monumento parto del grande Bernini. Se vi recate in Piazza della Minerva, vicino al Pantheon, troverete questa graziosa scultura in mezzo alla piazzetta antistante la Basilica di Santa Maria sopra Minerva, chiesa mica da ridere che ospita le spoglie di Santa Caterina da Siena e del Beato Angelico.
L’opera fu commissionata da Alessandro VII per fare da base all’antico obelisco dell’Iseo Campense (la zona dell’antica Roma dedicata ai culti egizi). La piccola guglia era arrivata nella Capitale da Eliopoli in Egitto per volere dell’imperatore Domiziano. L’opera si ispirava all’elefantino portato in omaggio all’Urbe da Cristina di Svezia (le cui irrequietezze fanno parte della storia cittadina) convertitasi al cattolicesimo. Una iscrizione sul basamento recita (traduco dal latino): “Chiunque qui vede i segni della Sapienza d’Egitto scolpiti sull’obelisco, sorretto dall’elefante, la più forte delle bestie, intenda questo come prova che è necessaria una mente robusta per sostenere una solida sapienza”.
Il primo progetto fu realizzato dal domenicano Paglia ma fu rifiutato: prevedeva alla base quattro cani sormontati dai colli dello stemma pontificio Chigi. Il religioso intendeva alludere alla fedeltà che la comunità domenicana portava al pontefice. Per chi lo volesse sapere il nome dell’ordine “Domenicani” derivava dal latino “domini canes” cioè “i cani del Signore” che poi a dirla tutta non è una definizione carina… .
Perchè Pulcino?
Perché pulcino? Non centra nulla con i piccoli della gallina. Il nomignolo Porcin della Minerva fu affibbiato dal popolo al piccolo elefante. Nella pronuncia dialettale dell’epoca (purcino) era simile a porcino, gioco di parole riferito all’elefante le cui piccole dimensioni e le forme rotonde erano più adatte a quelle di un maialino.
Nel tempo il termine “porcin” si è confuso con “purcin”, trasformandosi in “Pulcino della Minerva“. L’elefantino nasconde sotto alla gualdrappa un cubo di marmo. Bernini si era sempre opposto a quell’affare a sostegno dell’elefantino, affermando che il piccolo monumento avrebbe retto il peso dell’obelisco senza l’ausilio di una massa di marmo tra le gambe della povera bestia. Il padre Paglia, però, sostenitore del “rinforzo marmoreo”, l’ebbe vinta davanti al Papa e Bernini, per vendicarsi, aggiunse un dettaglio irriverente. L’elefantino indica con la proboscide il suo deretano. Ha la coda sollevata con il posteriore orientato verso il convento domenicano e in particolare nella direzione della finestra dello studio del prelato che lo avrebbe avuto, per sempre, sotto i suoi occhi.
FONTANA DEI FIUMI A PIAZZA NAVONA
Quando si arriva in piazza Navona si rimane estasiati dalla vista della Fontana dei Fiumi. Imponente e maestosa, si staglia di fronte alla Chiesa di Sant’Agnese in Agone. L’opera nasconde alcuni aneddoti che valgono la pena essere raccontati.
La storia della fontana
La Fontana dei Quattro Fiumi, è arcinoto, fu opera dello scultore e architetto Gian Lorenzo Bernini, che realizzò questo capolavoro su commissione di Papa Innocenzo X battendo il progetto del suo “nemico” Borromini. L’intera aneddotica legata alla fontana è basata su questa rivalità. Rimanendo sul luogo strettamente legato a questa leggenda, va detto che Papa Innocenzo X Pamphilj preferiva decisamente il Borromini al Bernini che era stato protetto dal suo predecessore Urbano VIII Barberini.
Volendo, il pontefice, adornare Piazza Navona con una nuova fontana, aveva dato allo scultore italo-svizzero Borromini l’incarico di progettarla; purtroppo quanto proposto dall’architetto lasciava un po’ a desiderare. Tenete presente che, all’epoca, la piazza sembrava il cortile dell’enorme, sovrastante Palazzo Pamphili e che, quindi, doveva essere ben ornata. Bernini, che fesso non era, fece una “drittata” riuscendo ad ottenere la commissione e rientrare nelle simpatie dei Pamphilj. Cosa combinò? L’artista fece pervenire a Donna Olimpia Maidalchini, che era stata nominata supervisore del progetto dal Papa del quale ne era la “cognata”, un modellino in argento dell’opera che il Nostro aveva ideato, alto un metro e mezzo. Manco a dirlo fu approvato e meno male!
Sulla realizzazione della fontana Pasquino, altro aneddoto, se ne uscì così:
Noi volemo altro che guglie e fontane
pane volemo, pane, pane, pane!
Questo obelisco in Campo d’Agone (piazza Navona)
eretto a spese d’innocenti,
Innocenzo lasciò all’eternità.
Santo Padre, non più puttane!
Pane, pane, pane, pane
La fontana e i dispetti
La composizione marmorea è formata da una grande vasca ellittica al centro della quale si staglia un gruppo scultoreo sulla cui sommità si erge un obelisco egizio rinvenuto nel Circo di Massenzio sulla via Appia (che poi era una copia dell’originale) retto da quattro giganti, appoggiati ai lati di uno scoglio in travertino. Rappresentavano le allegorie dei quattro fiumi più grandi della Terra allora conosciuti: il Nilo, il Gange, il Danubio ed il Rio de la Plata. Uno degli aneddoti riguarda proprio il Rio della Plata.
Si tramanda che la statua del fiume tenesse alzato il braccio per ripararsi dall’eventuale crollo del campanile o della cupola della prospiciente chiesa di Sant’Agnese in Agone in spregio delle abilità tecniche del Borromini. Accanto al Rio della Plata, la statua del Nilo si copriva il volto per non vedere il crollo incombente. In realtà la testa era coperta a simboleggiare il fatto che all’epoca non si conoscevano ancora le sorgenti del fiume).
IL MOSÈ BRUTTO
A Roma c’è un Mosè così brutto che fu preso in giro dal popolino per secoli. Dovete sapere che vicino a Piazza dell’Esedra c’è uno slargo, Piazza di S. Bernardo, dove fa bella mostra di sé la Fontana dell’Acqua Felice. Fu chiamata così in onore di papa Sisto V Felice Peretti ma meglio conosciuta col nome di “Fontana del Mosè Brutto”. Non è difficile immaginare il perché: basta guardare quel povero Patriarca così goffo che voleva essere ispirato dall’opera michelangiolesca.
La storia
Papa Sisto V voleva fornire di acqua corrente i rioni che stavano nascendo sul Quirinale e sul colle del Viminale. Il suo non fu tanto un gesto di generosità: proprio lì infatti sorgeva la sua lussuosa Villa di Montalto e una costruzione del genere mica poteva essere priva d’acqua. Il Pontefice, ispirato da questo pio progetto, per farla arrivare alla sua villa che si ergeva fra un colle e l’altro, ordinò il ripristino dell’acquedotto Alessandrino, edificato a partire dal 222 sotto l’impero di Alessandro Severo.
La Fontana
L’opera fu realizzata da Leonardo Sormani con l’aiuto di Prospero Antichi. La parte di questa fontana che ha fatto sicuramente parlare a lungo di sé è il Mosè che con la mano destra indica le acque che scaturiscono miracolosamente dalla roccia, secondo quanto narrato nella Bibbia. Lo scultore però fece un errore clamoroso: nel momento in cui avvenne il miracolo delle acque, Mosè ancora non aveva ricevuto le Tavole della Legge che invece nella sua scultura tiene nella mano sinistra. La legenda narra che il suo autore si sarebbe suicidato per la vergogna d’aver realizzato un tale Mosè, ma si tratta di una diceria.
Poteva Pasquino tenere chiusa la sua bocca sacrilega?
È buona l’acqua fresca e la fontana è bella
Con quel mostro di sopra però non è più quella
O tu, Sisto, che tanto tieni alla tua parola
Il nuovo Michelangelo impicca per la gola.
FONTANA DEL MASCHERONE
Questa fontana fu fatta edificare a spese della famiglia Farnese nel 1626. Si tratta di un catino sovrastato da un mascherone dalla cui bocca esce un fiotto d’acqua. In occasioni di feste particolari da quella bocca scaturiva non solo acqua ma anche buon vino. Accadde nel 1720 quando fu eletto il nuovo gran Maestro dell’ordine di Malta, Marco Antonio Zondadari. In tutta via Giulia, completamente addobbata, sfilò la crema della nobiltà romana, in carrozze e in abbigliamenti sfarzosi. Per quell’evento particolare, siccome i romani hanno sempre avuto un buon apporto con l’alcolico succo, il Mascherone gettò vino fino alle quattro di mattina per tre giorni consecutivi. Immaginate la confusione divertita e quanti schiamazzi dei tanti romani che felici vi si affollarono intorno, brindando alla salute dei principi Farnese.
LA PROSPETTIVA ILLUDE…
Nella Città Eterna, qualcuno si divertì a realizzare alcune opere che avevano una loro peculiarità: erano delle illusioni ottiche. Facendo due passi nel Centro di Roma vale la pena dare una sbirciata alla Galleria Prospettica di Palazzo Spada realizzata dal Borromini. Fu una richiesta di Bernandino Spada il quale voleva, nel suo palazzo, una galleria che desse l’illusione di essere lunghissima.
Ci troviamo in piazza Capo di Ferro alle spalle di una delle piazze più caratteristiche e frequentate di Roma: Campo de’ Fiori. Il nome del palazzo che sovrasta il posto è legato alla famiglia Spada che lo acquistò nel Seicento come propria residenza. Oggi ha due diverse destinazioni d’uso: il piano nobile è sede del Consiglio di Stato mentre il resto ospita la piccola ed interessante quadreria e la celebre galleria prospettica di Francesco Borromini. È un corridoio colonnato di 8,82 metri di lunghezza, che per una serie di accorgimenti prospettici, sembra misurarne circa 35.
Realizzata con l’aiuto del matematico agostiniano Padre Giovanni Maria da Bitonto, quest’opera di pura illusione ottica è un po’ la dimostrazione dei gusti di Bernardino Spada, al quale piacevano le stranezze.
Il trucco usato per la galleria
Per creare questo effetto stupefacente, il Borromini adottò alcuni accorgimenti: la convergenza dei piani del colonnato che, invece di procedere parallelamente, confluiscono in un unico punto di fuga; le colonne laterali si rimpiccioliscono andando verso il fondo mentre il pavimento a mosaico sale gradualmente. Alla fine del colonnato c’è una statuetta di guerriero romano (quella visibile attualmente è una copia dell’originale custodito al piano nobile) che sembra essere chissà quanto alta ma è una statuettina di piccole dimensioni. Dietro a tutto questo ambaradàm c’era la volontà del committente di creare un parallelismo tra la vita mondana in cui i sensi sono ingannati dall’illusorietà della vita e la vita religiosa, l’unica che può portare alla Salvezza. Non so se sia veramente così ma vi invito ad andare a vedere ‘sta cosa e ne rimarrete sbalorditi!
Cupola di Sant’Ignazio
Ecco una illusione ottica che ebbe origine da un miserrimo problema economico. La chiesa di Sant’Ignazio di Loyola sulla piazza omonima è inserita nell’imponente edificio del Collegio Romano. Questo era uno immenso complesso rimpinzato di aule, cappelle, laboratori, refettori, cucine, stalle e biblioteche. Come non bastasse era arricchito addirittura da un pollaio, dall’infermeria, dalle officine e nientepopodimeno che dall’osservatorio astronomico di Athanasius Kircher. Chi era costui? Intanto era Gesuita e per di più tedesco il che ne faceva uno dei più compulsivi studiosi dell’epoca. Pubblicò una quarantina di opere dedicate all’archeologia, alla geografia, alle scienze naturali, all’astronomia, alla matematica, alla filologia, alla liturgia sacra, alla fisica e alla musicologia.
Manca la cupola!
La cupola grandiosa prevista per la chiesa non fu mai realizzata. Nel 1685 la Chiesa era quasi terminata quando si accorsero di un problemino: era senza cupola e mancavano pure i soldi per realizzarla: una cosetta da nulla. Siccome erano gesuiti e quindi furbi per antonomasia, chiamarono il pittore Andrea del Pozzo, pure lui dell’ordine religioso. Che fece? Dipinse lo spazio piatto su cui avrebbe dovuto essere edificata la cupola usando la tecnica del trompe-l’oeil. Una illusione ottica che permetteva di percepire il dipinto tridimensionalmente se guardata da un determinato punto di vista segnato sulla pavimentazione del luogo sacro.
Le illusioni ottiche
Appena varcata la soglia della Chiesa, sul pavimento si possono ammirare le particolari geometrie dei marmi che portano al centro della navata in cui formano un cerchio. Da questo preciso punto, alzando gli occhi al cielo, si può ammirare il fantastico affresco con la Gloria di Sant’Ignazio, sempre di Andrea del Pozzo, che tramite l’effetto di “sfondamento” o “quadratura” del soffitto lo fa sembrare alto il doppio di quanto sia realmente. All’occhio dello spettatore, la simulazione prospettica, pare una seconda chiesa tridimensionale che “poggia” direttamente su quella reale.
Proseguendo nella navata centrale, verso l’altare, si incontra, sul pavimento, un tondo dorato. Guardando in alto da quel punto ecco la splendida cupola di ben 13 metri di diametro che, però, è finta e piatta: dipinta. la Chiesa di Sant’Ignazio a Roma è considerata una delle opere più rappresentative dell’illusione pittorica, il genere che, nel periodo barocco, tendeva a stupire l’osservatore con espedienti geniali.
LA SALA PARTO NELLA BASILICA DI SAN PIETRO
A questa non ci crederete eppure è vera! Per realizzare il monumentale baldacchino dell’altare di San Pietro, il Bernini cannibalizzò il povero Pantheon. Tutto il bronzo che ricopriva il tetto del monumento fu fuso per le bisogna e pure per forgiare i cannoni di Castel Sant’Angelo. Il baldacchino riporta sotto ognuna delle colonne dell’altare realizzate in stile salomonico, otto fregi marmorei con lo scudo, le api della famiglia Barberini e le chiavi e la mitra del papato. Cosa è una colonna “salomonica? È una colonna trasformata in una specie di cavatappi a spirale con un capitello in cima.
I fregi di cui sopra potrebbero sembrare tutti uguali. In realtà sono diversi l’uno dall’altro. Facendo un giro in senso orario partendo dal primo è rappresentato il ciclo di una donna incinta, da quando concepisce a quando partorisce. Nell’ultimo è visibile il volto del neonato.
Diamogli uno sguardo
Volete vedere la cosa? Andate a San Pietro, guardate il baldacchino e cominciando dal primo piedistallo a destra, procedendo in senso antiorario, si nota tra lo stemma e le chiavi di San Pietro una testa di donna la cui espressione in progressivo mutamento indica le varie fasi di un parto.
Ecco il parto!
Il volto femminile inizialmente si contrae per le prime doglie, quindi gli occhi si stravolgono, i capelli sono scompigliati, la bocca da socchiusa si apre in un urlo. Nell’ottavo e ultimo stemma la testa di donna è sostituita da quella allegra e paffuta di un bambino, anzi, a giudicare dalle ali, di un cherubino, come a significare che il travaglio si è concluso felicemente. Curiosità nella curiosità, guardando di profilo gli stemmi si vedono diventare sempre più sporgenti, come il ventre di una donna durante la gravidanza, mentre l’ultimo torna piatto come dopo il parto. Ogni stemma, poi, ha nella parte inferiore un piccolo, grottesco mascherone che nella sua forma fa riferimento ai genitali esterni femminili, anch’essi diversi l’uno dall’altro e corrispondenti alle fasi di travaglio indicate dai volti di donna.
I commenti
Su questa faccenda se ne sono dette di tutti i colori anche perché ci troviamo in un luogo di culto. Secondo alcuni si tratterebbe di un modo particolare per rivolgere un augurio a una nipote di Urbano VIII che desiderava una gravidanza e un parto felici. Secondo altri, invece, i soggetti delle sculture si dovettero al disappunto del Bernini nei confronti del Pontefice, reo d’avere vietato un matrimonio riparatore tra una sua nipote e l’artista. Dall’unione dei due, pare, sarebbe anche nato un bambino. Secondo coloro che la sanno lunga, invece, sembra trattarsi di un’allusione alla lunga gestazione dell’opera architettonica durata addirittura nove anni, dal 1624 al 1633.
Ci si mette pure Ejzenstein
Il celeberrimo regista Sergei Michailovich Ejzenstejn a cui si devono capolavori indimenticabili come “La corazzata Potemkin”, “Ivan il terribile” o “La congiura dei Boiardi” che aveva una fissazione per le inquadrature tirò fuori tutta una storia sulla sequenza di questi piccoli emblemi. Nel 1937 scrisse: “Questi otto stemmi che sembrerebbero indipendenti e identici tra loro in realtà non solo non sono identici, ma neppure autonomi l’uno dall’altro. Essi sono otto inquadrature, gli otto pezzi del montaggio di una completa sceneggiatura. Presi insieme svolgono progressivamente un intero dramma“. Le basi del Baldacchino di San Pietro interessarono talmente il regista, che arrivò a dedicar loro quindici pagine del suo saggio sulla “Teoria generale del montaggio”. Mi congedo da voi: siete edotti, ora, su alcune delle curiosità più particolari della Capitale. Un saluto da un metro e mezzo di distanza.