Mastro Titta, “Er Boia de Roma” che di notte s’aggira su Ponte Sant’Angelo
Può un verniciatore di ombrelli passare alla storia? La risposta è si, soprattutto se è il “maestro di giustizie” dello Stato Pontificio, cioè il boia. La persona in questione è Mastro Titta, al secolo Giovanni Battista Bugatti, che prese il suo soprannome da “maestro” e quindi “mastro” in romanesco e Titta dal diminutivo di Battista.
A Roma il suo nome era sinonimo di boia e come facile capire non era molto amato dai concittadini, per cui viveva in una sorta di domicilio forzato all’interno della cinta vaticana, sulla riva destra del Tevere, al numero 2 di vicolo del Campanile. Per dire la verità gli era addirittura vietato, per prudenza, recarsi nel centro della città. A causa sua, nell’Urbe, nacque il proverbio “Boia nun passa ponte“, come dire “ciascuno se ne stia a casa sua”. All’epoca le esecuzioni non avevano luogo nel borgo papalino ove risiedeva Bugatti, ma sull’altra sponda del Tevere, a volte in piazza del Popolo, a volte in piazza di Ponte, altre in piazza Campo de’ Fiori (dove, tanto per dirne una, bruciarono Giordano Bruno) oppure in via dei Cerchi. Chiaramente Mastro Titta, eccezionalmente, poteva recarsi dall’altra parte del Tevere, attraversando ponte Sant’Angelo, allo scopo di attendere ai suoi servizi professionali, per cui a Roma quando si pronunciava la frase “Mastro Titta passa ponte” significava che in quel giorno qualcuno ci avrebbe rimesso la testa!
Giovanni Battista Bugatti era anche noto come “er Boja de Roma” e tagliò teste dal 1796 fino al 1864 anno in cui prese la meritata pensione di 30 scudi al mese. Durante la sua attività lavorativa “si mise all’anima” 514 persone. In realtà ne annotò, sul suo taccuino, 516 (era uno preciso). Perché la discrepanza? Uno fu fucilato e l’altro impiccato e squartato dal suo aiutante.
Il nostro boia svolgeva il suo lavoro con serietà e professionalità: Prima di ogni esecuzione si confessava e si comunicava, poi indossava il mantello rosso e si recava a compiere l’opera. Era uno stimato professionista di grande abilità, sia che squartasse, mazzolasse, impiccasse oppure decapitasse il malcapitato di turno: insomma un uomo dai molteplici talenti che veniva richiesto anche nelle province e, come una pop star, faceva le sue tournée.
Vi chiederete in cosa consistessero le tante discipline in cui eccelleva Mastro Titta ebbene eccole illustrate tanto per dare l’idea.
Col termine di mazzolatura si indicava un tipo di esecuzione effettuata per mezzo di un maglio percosso sul cranio della vittima che teneva il capo poggiato su una base di pietra. Poteva essere portata a termine in due modi: quella semplice che richiedeva il solo sfondamento del cranio con un grosso martello, oppure quella più completa e soddisfacente che comportava la frantumazione di tutte le ossa del suppliziato che, però, doveva rimanere vivo per essere poi decapitato (e qui ci voleva una bella abilità per non ammazzare il condannato prima di spiccargli il capo). Lo squartamento era un “plus” comminato ai rei di crimini particolarmente efferati. Era inflitto, dopo l’esecuzione capitale, al corpo ormai privo di vita, i cui quarti smembrati erano successivamente affissi ai quattro angoli del patibolo.
Per descrivere l’impiccagione, invece, passo la parola allo stesso Mastro Titta che racconta il suo primo lavoro, cioè il supplizio di un tale Gentilucci: “con un colpo magistrale lo lanciai nel vuoto e gli saltai sulle spalle, strangolandolo perfettamente e facendo eseguire alla salma del paziente parecchie eleganti piroette. La folla restò ammirata dal contegno severo, coraggioso e forte di Nicola Gentilucci, non meno che della veramente straordinaria destrezza con cui avevo compiuto quella prima esecuzione. Staccato il cadavere, gli spiccai innanzitutto la testa dal busto e infilzata sulla punta d’una lancia la rizzai sulla sommità del patibolo. Quindi con un accetta gli spaccai il petto e l’addome, divisi il corpo in quattro parti, con franchezza e precisione, come avrebbe potuto fare il più esperto macellaio, li appesi in mostra intorno al patibolo, dando prova così di un sangue freddo veramente eccezionale e quale si richiedeva a un esecutore, perché le sue giustizie riuscissero per davvero esemplari. Avevo allora diciassette anni compiti, e l’animo mio non provò emozione alcuna. Ho sempre creduto che chi pecca deve espiare”
La decapitazione, invece, fungeva da forte richiamo per i romani e le piazze erano sempre gremite. Il condannato si doveva confessare ed era accompagnato, con le mani legate dietro la schiena, alla chiesa più vicina. Uno dei posti preferiti per le esecuzioni era piazza del Popolo davanti alla cinquecentesca chiesa di… San Giovanni Decollato. Allo spettacolo i padri conducevano i figli maschi per mostrare loro ogni dettaglio della cerimonia e proprio nel momento in cui veniva giù la lama (…e la testa) per consuetudine davano loro uno sganassone (cioè uno schiaffo), per ricordare ai giovinetti ciò che gli sarebbe potuto accadere il giorno che si fossero messi nei guai con la giustizia. Ma non finiva lì, la testa del poveraccio veniva presa per i capelli e mostrata ai quattro angoli del patibolo. Infine era infilata su una picca. Pensate a uno sgomento generale dopo tale visione? Ma anche no: i giocatori di lotto contavano gli schizzi di sangue rimasti a terra per scommettere sull’uscita del numero!
Alla fine, a conti fatti, Mastro Titta era un brav’uomo che faceva il suo mestiere, descritto dai suoi contemporanei come una persona tranquilla, educata e ligia al dovere. Talmente precisa da lasciare un elenco dettagliato di ogni “giustizia” compiuta nella sua carriera. Eseguiva le condanne a morte con professionalità ma senza trasporto. Era considerato un bonaccione sempre pronto a offrire ai condannati un bicchiere di vino o una presa di tabacco come ultimo omaggio della vita terrena. Altri lo vedevano come un cinico e spietato esecutore delle condanne a morte papaline. Di certo il suo mestiere non lo aiutava ad acquisire simpatie…. Anche i bambini lo prendevano in giro e ci è rimasta una filastrocca che gli recitavano contro: “Sega, sega, Mastro Titta / ’na pagnotta e ’na sarciccia / una a mme, una a tte, una a mmàmmeta che sso’ ttre”.
La sua morte non fu la sua fine. Il fantasma vaga ancora vicino a Castel Sant’Angelo. Quante volte siamo stati fermati da qualcuno che ci chiede una sigaretta? Se passeggiate, di notte, nei pressi di Castel Sant’Angelo o meglio su Ponte Sant’Angelo, è possibile, invece, che incontriate un uomo avvolto nel suo ampio mantello scarlatto, che vuole offrirvi una presa di tabacco: E’ il fantasma di Mastro Titta, il boia di Roma, che avvezzo ad offrire un’ultimo conforto al condannato, pare mantenga nottetempo questa abitudine. Dimenticavo… Non si sa dove sia la sua tomba, però si sa per certo che i boia non potevano essere sepolti in terra consacrata. L’usanza era, all’epoca, che fossero sepolti sotto un campanile, vicino alla chiesa ma non su terra consacrata. Chissà magari lui è la sotto qualche campana per tirare ancora funi… .
L’ultima esecuzione capitale eseguita da Giovanni Battista Bugatti fu eseguita ai danni di Domenico Antonio Demartini, reo di omicidio e ucciso in via de’ Cerchi il 17 agosto 1864 a Roma. Al termine della sua carriera, Mastro Titta fu sostituito dal suo aiutante Vincenzo Balducci. L’ultima esecuzione dello Stato Pontificio, invece, fu quella dei carbonari Targhini e Montanari. Entrambi furono sepolti presso il Muro Torto, nella terra sconsacrata destinata a suicidi, ladri, vagabondi e prostitute. Ancora oggi i loro fantasmi vagano nella zona con la testa sotto al braccio dando numeri fortunati a coloro nei quali si imbattono.
Una curiosità: Mastro Titta era originario delle Marche, così come Il capo della polizia pontificia, il famoso e temuto colonnello Filippo Nardoni che, per inciso, era un ex forzato e come gli esattori delle tasse papaline. A causa di questa coincidenza, a Roma, pare, nacque il detto: “è meglio un morto in casa che un marchiciano fori dalla porta”.
Una considerazione: la pena di morte fu abolita in Vaticano da San Paolo VI nel 1969 e rimossa completamente dalla Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano del 26 novembre 2000 emanata motu proprio da San Giovanni Paolo II ed entrata in vigore il 22 febbraio 2001. La pena di morte era prevista in caso di tentato omicidio del papa. Che strano posto il Vaticano dove genuflessione e impiccagione sono andati santamente di pari passo sino ai giorni nostri! Un saluto da un metro e mezzo di distanza.