“Mimma” Spizzichino; la donna forte che nacque due volte e sconfisse i nazisti e il “Doktor Mengele”

Potrei dire tante cose sulle donne: che sono tutte amabili e belle, potrei scrivere sul significato di questa festa, sulle motivazioni che l’hanno originata, ma per quante cose io possa elencare non basterebbero a descrivere la forza e il coraggio con i quali sono state chiamate ad affrontare la vita; intendo, quindi, tessere lodi ed elogi del sesso femminile: non ne hanno bisogno. Desidero, invece, onorarle ricordandone una in particolare.

67210 cosa è questo numero? Era il numero di registrazione di Settimia Spizzichino (Mimma per gli amici), reduce dal rastrellamento nazista del ghetto ebreo di Roma tatuato sul suo braccio. Il 16 ottobre del 1943, alle 5.15 del mattino, le SS naziste rastrellano 1024 ebrei e più di  200 bambini) inviandoli al campo di concentramento di Auschwitz. Torneranno solo 15 uomini ed una donna: Settimia Spizzichino. Lei, unica superstite della famiglia, ha resistito per circa due anni alla vita del campo di concentramento, fatta di freddo, fame, violenza e privazioni. Come era in uso per tutti i prigionieri, anche sul suo braccio fu tatuato un marchio: era divenuta la prigioniera 67210.

Settimia Spizzichino nelle scuole

La sua vita fu dedicata alla memoria, non voleva che l’infamia accaduta in quegli anni fosse dimenticata e per lei era un dovere nei riguardi delle sventurate compagne di prigionia che non erano riuscite a sopravvivere. Andava nelle scuole per raccontare ai ragazzi cosa era un lager. Ha partecipato ai Viaggi della Memoria organizzati ogni anno perché gli studenti potessero visitare i campi di sterminio nazisti e questo fino a pochi mesi prima dalla sua morte, all’età di 79 anni. Negli ultimi anni della sua vita scrisse un libro, un volume dal titolo “Gli anni rubati”.  Ecco la storia del suo martirio.

Arrivata ad Auschwitz, superò la prima selezione, dove i nuovi arrivati erano assegnati, a seconda delle loro condizioni fisiche, alle camere a gas o al lavoro. Dopo varie peripezie, tra cui un ricovero in ospedale, Mimma fu destinata al laboratorio di Josef Mengele, luogo tristemente noto per gli esperimenti “non molto etici”.

I bambini di Mengele

Volete sapere chi era questa brava persona che prestò il giuramento di Ippocrate per salvare vite umane e si produsse nell’esatto contrario? Il dottor Josef Mengele. Questi conduceva esperimenti medici e di eugenetica nel campo di concentramento di Auschwitz, usando i deportati come cavie umane, soprattutto bambini (gli piacevano, scientificamente parlando,  a morte, è il caso di dirlo, i gemelli) era talmente bravo che passò alla storia come  l’“Angelo della morte”. In questo contesto Settimia sopravvisse agli esperimenti sulla scabbia, al tifo e a tutte le altre malattie che le iniettano per sperimentare cure. Era una ragazza esuberante e volitiva che, ad esempio, se ne era sempre infischiata delle leggi razziali (“io a Roma andavo a bermi il caffè dove volevo, anche fuori dal ghetto”) e anche in questo caso la sua indomita volontà la fece sopravvivere. Raccontava: ”Io mi devo salvare, io devo tornare, mi ripetevo…”. La sua preghiera era: “O Signore, fa che io possa sopravvivere. Fammi resistere, fammi resistere. Nessuno uscirà vivo da qua. Ma ho fatto giuramento, ho fatto voto di essere la loro voce. Risparmiami, o Signore, per essere testimone del tuo volto ad Auschwitz”. La forza e la volontà non le mancarono come nella Marcia della Morte dell’inverno 1945, quindi a una fucilazione di massa, dove si nascose per giorni sotto una catasta di cadaveri. Raccontò poi: “Sono stata liberata il 15 aprile 1945 (il 15 aprile è il giorno del mio compleanno e tutte le cose importanti della mia vita sono avvenute il 15 aprile) dagli anglo-americani nel campo di concentramento di Bergen-Belsen dopo un anno e mezzo d’inferno. Sono giunta a Roma irriconoscibile – pesavo 30 chili – nonostante la mia giovane età (24 anni). Poi con l’aiuto dei parenti e delle amiche ho ricominciato a vivere. Non mi sono sposata e per 38 anni ho lavorato alle Poste”.

Settimia è stata un’infaticabile testimone e ancora una volta voglio lasciare alle sue parole la narrazione della sua vita nel famigerato Blocco 10 di Mengele perché, vedete, è inutile che io racconti la sua terribile esperienza, non renderei l’idea, meglio affidarsi alle sue parole.  “Un mattino il medico, che era un prigioniero polacco, fu accompagnato da un soldato tedesco. Si rivolsero alla mia compagna di letto, tedesca anche lei. Avevo imparato qualche parola in quella lingua, sufficiente a capire quello che la tedesca diceva al soldato: “Prendete l’italiana”. Purtroppo il mio tedesco non bastava a far comprendere le mie proteste o più probabilmente a quelli non importava niente. “Prendete l’italiana”. Che volevano farmi? L’unica cosa di cui ero certa era che non si trattava di niente di buono. Mi fecero scendere dal letto, mi avvolsero in una coperta – come al solito ero nuda – e mi portarono fuori al freddo. Avevo una terribile paura; non sapevo cosa volessero da me, ma ad Auschwitz le novità di solito erano brutte.  Arrivò una specie di ambulanza. Pensai subito alla camera a gas, ma poi mi dissi: “Ma la camera a gas per una persona sola, e l’ambulanza…”. Ragionavo ma non tanto bene, avevo troppa paura. L’ambulanza mi portò da Birkenau ad Auschwitz, il Campo principale. Auschwitz era molto diversa da Birkenau: le costruzioni erano più fitte e tutte in muratura, la gente sembrava in condizioni anche peggiori delle nostre, persone ingrigite, con occhi senza speranza, con la divisa a strisce che si afflosciava sui corpi scheletrici, con l’immancabile numero tatuato sul braccio. Molti là portavano la stella gialla. Il filo elettrificato circondava dappertutto uomini e costruzioni. 

La testimonianza

Arrivammo ad un edificio più grande degli altri. Non era la camera a gas.  Entrammo in una stanza a due letti. Letti veri, non tavolacci, con lenzuola e coperte. E c’era un vero bagno in cui mi accompagnarono, un bagno come non ne vedevo da tanto tempo. Mi fecero lavare con del sapone – quasi non ricordavo più come si facesse – poi mi dettero una camicia da notte. Anche nella stanza c’era un lavandino. Tutto era pulito, in ordine. Credevo di sognare, ero sbalordita e molto spaventata. Avevo sete e andai a bere al lavandino. Arrivò di corsa un’infermiera: “Tu non bere, acqua inquinata, c’è tifo!”.  “Ma che m’importa, sono mesi che bevo quest’acqua, me lo sarei già preso!” “Tu aspetta”. Uscì sempre di corsa e rientrò portandomi un bicchiere di latte. “Ma che sta succedendo?” – mi chiesi.  Lo seppi anche troppo presto. Il mattino seguente arrivò il dottore e fu tremendo. Mi portarono in sala operatoria, mi cosparsero con una pomata, non so ancora cosa fosse, e due ore dopo ero tutta una piaga. Il dolore era insopportabile, piangevo e mi lamentavo. “Ti porto la marmellata”. Così tentava di consolarmi il medico.  E me la portò davvero, ma non riuscii a mangiarla, stavo troppo male. 

Il blocco esperimenti numero 10

Vennero a trovarmi delle ragazze greche che erano ricoverate al piano di sopra. In quella specie di lingua internazionale che si parlava ad Auschwitz – un po’ tedesco, un po’ tutte le altre lingue e molto a gesti – mi spiegarono: “Siamo al Blocco Esperimenti. Provano su di noi delle medicine; ma prima devono farci ammalare”. Al Blocco rimasi parecchio tempo. Gli esperimenti erano sgradevoli e dolorosi (mi iniettarono la scabbia, il tifo e una dozzina di altre malattie di cui non conosco il nome) e spesso le cure erano anche peggio della malattia. Per un mese andai avanti e indietro dalla sala operatoria e alla fine ero ridotta in uno stato pietoso, nonostante fossi al caldo, avessi da mangiare – non molto, ma certo più che al Campo – e fossi libera dai maledetti appelli.  Cristina, l’infermiera, era polacca ed era amica del dottore che mi aveva scelta per il blocco. Era una brava persona; il dottore veniva a trovarla tutti i giorni e le portava del cibo che lei divideva con noi. Quando si avvicinava al mio letto, il medico voltava la testa verso l’infermiera e la scuoteva, come a dire: “Questa non ce la fa”. “Ce la faccio, vedrai…” – pensavo io. Ma non riuscivo quasi più a scendere dal letto.  Mi passarono in una stanza più grande con una decina di ragazze. Un giorno Cristina fece nella sua camera una piccola festa per il suo compleanno e fummo tutte invitate. Ci andarono tutte tranne me, io stavo troppo male. Tuttavia, rimasta sola, decisi di fare una sorpresa alle compagne, di farmi trovare in piedi.  Pian piano mi alzai dal letto e sorreggendomi con la sedia mi trascinai fino al lavandino. Mi aggrappai al bordo con tutt’e due le mani, perché la testa mi girava.  Alzando gli occhi vidi una sconosciuta, uno scheletro sparuto coperto di piaghe. Pensai: “Dio, com’è ridotta questa!” E portai le mani al viso. La sconosciuta fece lo stesso gesto. Allora capii con orrore che stavo guardando la mia immagine allo specchio. Non mi ero più specchiata da quando avevo lasciato la mia casa.

Il ponte Settimia Spizzichino

Settimia Spizzichino ci ha lasciati il 3 luglio del 2000. Le è stato dedicato, a Roma, un istituto comprensivo ed un ponte. Un’infrastruttura, quest’ultima, che ha una valenza particolare perché, com’è stato ricordato anche in occasione della sua intitolazione, il ponte “unisce”. E lo stesso ha fatto la sua testimonianza che, attraversando le generazioni, ha contribuito a lasciare un ricordo doloroso destinato a durare. Anche vent’anni dopo la sua scomparsa.“

La scuola Settimia Spizzichino

A proposito del ponte voglio raccontarvene una di quelle buone: nei totem informativi sparsi per la città, realizzati da Roma Servizi per la Mobilità, il nome del ponte era stato cambiato in “Garbatella” e naturalmente la nipote Carla Di Veroli, aveva annunciato battaglia: “che il ponte sia intitolato a Settimia Spizzichino, lo sanno tutti. A quanto pare gli unici a non saperlo sono gli esponenti dell’attuale Giunta comunale di Roma”.  A onor del vero Roma Mobilità ha fatto sapere che “Il ponte “Settimia Spizzichino è stato definito, per errore, ponte della Garbatella sui 57 totem informativi realizzati da Roma Servizi per la Mobilità e posizionati in varie zone della città”. L’azienda, – si legge in una nota, – “provvederà alla correzione, entro la prossima settimana, di quelli nel quartiere Garbatella. A seguire si procederà sugli altri.”  E la stessa sindaca Raggi s’è prodigata in scuse ufficiali… e questa è Roma che ci volete fare?

Le sue memorie sono raccolte nel volume Gli anni rubati e la sua storia è diventata un documentario dal titolo Nata 2 volte: storia di Settimia ebrea romana, tratto da un’intervista concessa nel 1998 all’archivio della Survivors of the Shoah Visual History Foundation. La sua testimonianza è inoltre contenuta nel documentario di Ruggero Gabbai Memoria. Di lei ha detto la Sindaca “vent’anni fa moriva l’unica sopravvissuta al rastrellamento del Ghetto. Il suo impegno per non dimenticare quell’orrore sia un esempio per tutti” (oddio poi ha sbagliato i totem informativi tanto per non dimenticare). Termino questo articolo citando le parole di Mimma: “Ci sono cose che tutti vogliono dimenticare. Ma io no. Io della mia vita voglio ricordare tutto, anche quella terribile esperienza che si chiama Auschwitz: due anni in Polonia (e in Germania), due inverni, e in Polonia l’inverno è inverno sul serio, è un assassino.., anche se non è stato il freddo la cosa peggiore. Tutto questo è parte della mia vita e soprattutto è parte della vita di tanti altri che dai Lager non sono usciti. E a queste persone io devo il ricordo: devo ricordare per raccontare anche la loro storia. L’ho giurato quando sono tornata a casa; e questo mio proposito si è rafforzato in tutti questi anni, specialmente ogni volta che qualcuno osa dire che tutto ciò non è mai accaduto, che non è vero.”

Settimia, numero di matricola 67210 tatuato sul braccio, vide distrutta la sua famiglia non da un incidente, non da una malattia, non da un evento naturale ma dalla volontà di un popolo settantadue anni fa cioè ieri!  Un irato saluto da un metro e mezzo e un felice 8 marzo a voi donne!

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