“Mio padre ha avuto l’ esito del tampone il giorno prima di morire”
Tante le domande che i famigliari di un deceduto a causa del Covid si chiedono una, dieci, cento, milioni di volte. Se si fosse agito diversamente?
Le norme attuate erano davvero valide? E gli operatori sanitari della mia zona, hanno lavorato bene?
Ma se a molte donande non c’è risposta, una cosa è sicura: ai parenti delle persone morte di Covid 19 mancherà per sempre un passaggio. Non riusciranno mai a mettere un punto all’elaborazione del lutto. I loro defunti sono dei dispersi. Non li hanno più visti. Non hanno nemmeno potuto portargli un vestito da indossare per quel viaggio eterno. L’elaborazione del lutto rimarrà a metà, non si completerà mai.
Perché al Covid 19 non basta uccidere. Fa molto di più. Mette in quarantena gli altri, i parenti del suo prescelto. È lì che mette in opera la sua arma più appuntita. Separa. Per sempre. Senza se, senza ma.
E questo Cinzia lo sa bene! La sua voce arriva da vicino Milano, dove vive e lavora da anni: ma anche se fosse rimasta in Abruzzo, nella sua terra, sarebbe una cittadina di una zona rossa del nostro territorio.
Quella di Cinzia è una tra le tante storie di famiglie che hanno avuto morti da Covid tra i famigliari, ma che raccontano una realtà che forse, sotto molti aspetti, poteva evolversi in un modo completamente diverso.
Come molti abruzzesi Cinzia si è trasferita per lavoro fuori dalla nostra amata regione, è un’ operatrice sanitaria nell’Alto Milanese e dunque vive la pandemia ancor peggio di molte altre persone: per lavoro e per zona di residenza.
Eppure la sofferenza a causa del Coronavirus gli è arrivata da oltre 600km, dalla sua città natale, un paese che viveva questa tragica pandemia come lei e proprio insieme a lei, rimanendo così lontani ma strettamente interconnessi e legati.
Cinzia ha perso il suo papà, ha seguito il ristrettissimo e intimo funerale in diretta tramite un’App di messaggistica, ma ancor prima ha dovuto seguire il calvario della malattia senza poter far nulla e senza poter dare una mano concreta alla sua famiglia.
Avrebbe potuto comunque fare ben poco lei, la malattia da Covid-19 quando ti prende può darti solo la speranza che il decorso non sia gravoso e le cure arrivino presto e siano efficaci: si perché le cure, anch’esse, devono arrivare per tempo, come i tamponi e come la sicurezza di non contagiare altri famigliari o conoscenti. Perché il Coronavirus non ha tempi, non aspetta, non può attendere esiti e diagnosi.
Eppure , nonostante la distanza e la morte di suo padre, Cinzia ci tiene a sottolineare:
Una mia opinione personale è che nessuna delle vittime del Covid-19 nel mio paese, dove risiede la mia famiglia, sia imputabile alla negligenza delle strutture sanitarie o amministrative. Anche se nei giorni immediatamente successivi al primo decesso, c’è stato un certo grado di impreparazione e inefficienza nel pianificare adeguate contromisure diagnostiche, prima fra tutte una tempestiva mappa del contagio nella cerchia più stretta dei frequentatori della vittima, attraverso la tamponatura di un campione significativo di soggetti a rischio.
Di fatti è stato un vero e proprio caso di fortuna, che in questa zona rossa d’Abruzzo, sia stato scoperto il primo caso di Coronavirus: al decesso del Paziente 1 della zona, la famiglia ha fatto richiesta di ulteriori accertamenti sulle circostanze della morte, visto che eravamo nei primi giorni del mese di Marzo e conoscevamo tutti già abbastanza bene cos’era il Coronavirus.
La positività di quest’uomo non sarebbe probabilmente mai stata riscontrata senza quest’indagine voluta dai suoi cari, in quanto la morte era stata attribuita inizialmente a cause naturali riguardanti il cuore.
Le vittime sarebbero state molte di più perché ci sarebbe stato lo svolgimento di un “regolare” e affollato funerale.
Ma ad ogni modo nel momento in cui veniva resa nota la positività della prima vittima, tutte le altre – fra le quali mio padre – erano consapevoli di essere ormai condannate, poiché senz’altro già infette.
“…chiedemmo nuovamente una visita medica a domicilio. Stavolta però non avemmo risposta…”
Cinzia mi racconta che ad ammalarsi di Coronavirus sono stati in realtà entrambi i genitori e, inizialmente, era la madre a destare maggiori preoccupazioni. Forse anche questa circostanza ha fatto si che non si siano troppo concentrati sul padre, che inizialmente presentava solo febbre.
Avendo frequentato la prima vittima da Covid e presentando i sintomi non molto tempo dopo il decesso, loro erano tutti certi di essere affetti dal famoso virus, i medici lo confermavano telefonicamente e, a loro avviso, un tampone non serviva per confermarlo: ne erano certi!
Ma cerchiamo di ricostruire i fatti che lo hanno portato ad una sentenza definitiva forse, prima che alla morte.
Il caso dei miei genitori si è sviluppato secondo modalità ormai tragicamente note. Mia madre ha iniziato per prima a manifestare i sintomi. Sebbene alla fine sia stato mio padre a perdere la vita, inizialmente tutto lasciava credere che la persona che versava in condizioni più serie fosse la mamma. Stato febbrile acuto e persistente, inappetenza, nausea, estrema debolezza e difficoltà respiratoria non sembravano lasciare speranze per mia madre, laddove mio padre manifestava “semplicemente” un leggero stato febbrile.
Quando perciò siamo riusciti ad ottenere finalmente una visita medica a domicilio, eravamo tutti preoccupati per mia madre e non per mio padre. Ho detto “siamo riusciti ad ottenere” perchè ciò è avvenuto dopo diverse telefonate a medici di base, numeri di emergenza e quant’altro.
Mio fratello, unico prezioso aiuto per i miei genitori in quel momento drammatico, è finalmente riuscito a contattare la guardia medica.
Questo giovane medico, molto gentile e disponibile, è venuto a casa a visitare mia madre, ed è stato per lei un prezioso aiuto.
Secondo il dottore la situazione era da ritenersi stabile, e poteva essere gestita in ambito domestico, ed effettivamente – seppur con estrema fatica – mia madre riuscì a venirne fuori senza essere ospedalizzata, con il solo ausilio dell’ossigeno nei momenti di maggiore difficoltà.Nel frattempo, però, il quadro clinico di mio padre iniziò ad aggravarsi, ragion per cui chiedemmo nuovamente una visita medica a domicilio. Stavolta però non avemmo risposta.
La situazione generale del paese andava degenerando e le indicazioni fornite alle strutture sanitarie erano chiare: niente più contatti con i pazienti; in caso di sospetto contagio l’unica via praticabile sarebbe stata quella del ricorso al 118 e al trasporto in ospedale in ambulanza.
E fu così che andò: il decorso positivo della malattia di mia madre ci “ingannò” per qualche giorno, facendoci sperare in un esito positivo anche per mio padre, ma in breve ci rendemmo conto che in assenza di un’ adeguata assistenza medica, l’unica alternativa era l’ospedalizzazione, per la quale mio padre optò spontaneamente quando i suoi sintomi erano assai meno gravi di quelli manifestati da mia madre nella fase acuta.Fu dunque lui stesso a tranquillizzarci: “Non preoccupatevi, sto bene. Vado in ospedale solo perché lì sarò costantemente monitorato e sotto controllo”, furono le sue parole all’arrivo dell’ambulanza. E, non essendogli stato consentito di portare con sé il cellulare, quelle parole furono anche le ultime che gli sentimmo pronunciare. Da quel momento non lo abbiamo più sentito né lo abbiamo più rivisto.
Purtroppo la morte del papà di Cinzia accomuna molte famiglie di questi ultimi mesi in Italia: morire in solitudine, morire dopo aver salutato la famiglia augurandosi di rivedersi e stare in una stanza d’ospedale con l’aria che manca e nemmeno la mano di un figlio, una moglie, un fratello da stringere.
Va così, nel tempo buio del coronavirus. Nei reparti ospedalieri degli infetti o dei presunti tali che non hanno ancora l’esito del tampone, non si può entrare. E davanti a quelle porte sbarrate ogni giorno ci sono più dolore, più sensi di colpa, più preghiere.
I familiari capiscono, Cinzia capisce, ma faticano lo stesso a voltare le spalle e a restare tranquilli a casa.
Tutte le morti sono assurde, si potrebbe affermare, ma alcune morti sono decisamente più assurde di altre. Morire soli, senza nessuno al proprio capezzale, senza un funerale e con i propri congiunti a loro volta isolati (io qui a centinaia di chilometri distante, un altro mio fratello anche lui lontano e l’unico altro fratello rimasto a casa che comunque doveva stare in isolamento) e privati dell’unica consolazione costituita dal conforto reciproco in un momento così drammatico, rendono circostanze del genere assolutamente surreali e decisamente troppo difficili da accettare anche nel quadro della inevitabilità della morte e della consapevolezza del fatto che la perdita di una persona cara sia una prova che, presto o tardi, ciascuno di noi è chiamato a sostenere.
E aggiunge:
…abbiamo partecipato al funerale di nostro padre, se funerale si può chiamare, grazie a una videochiamata whatsapp di nostro fratello. È stato uno strazio, ma per noi è stato essenziale per poter almeno in parte elaborare la tragedia: vedere coi nostri occhi la bara che conteneva papà,renderci conto che quella tragedia era davvero accaduta. E non era solo un incubo orrendo.
Ho inoltre chiesto a Cinzia se, a suo avviso, una tempestiva mappa del contagio nella cerchia più stretta dei frequentatori della prima vittima attraverso i tamponi, cercando di ottenere l’esito in tempi brevissimi ( poche ore perché è possibile farlo) avesse contribuito ad aiutare i suoi famigliari e altre vittime del Coronavirus nella sua città natale in Abruzzo.
A mio padre hanno fatto il tampone il giorno del ricovero, il 19 marzo. Il risultato è arrivato intorno al 28. Mio padre è morto il 30. Gli stessi medici del reparto dove era ricoverato erano indignati.
Tuttavia, io non sono a conoscenza dei meccanismi decisionali che stanno alla base di questo tipo di interventi – specie in periodi di crisi e di emergenza – e non saprei dire se e quali “colpe” ricadano nell’ambito delle responsabilità personali dei singoli amministratori e quali invece vadano inquadrati nel contesto più ampio della palese impreparazione normativa ed organizzativa manifestatasi a livello globale nella prima fase della gestione di questa pandemia.
Si potrebbe dunque affermare – e io stessa, probabilmente, sottoscriverei una simile dichiarazione – che il bilancio delle vittime del Covid-19 della città dove risiede la mia famiglia in Abruzzo, sarebbe potuto essere ancor più pesante di quanto già non sia stato ma che se la conta dei decessi non andrà oltre quelli già registrati, non sarà certo per merito degli organi amministrativi locali. Ben altra cosa, però, è sostenere che il paese avrebbe potuto evitare di piangere quelle stesse vittime in presenza di una macchina organizzativa e preventiva più efficiente.
Non posso appurare se mio padre (e con lui le altre vittime) avrebbe potuto aver salva la vita se ospedalizzato uno, due o tre giorni prima rispetto alla data effettiva di ricovero.
Questo è un virus molto potente. In quel preciso momento le indicazioni sanitarie erano chiare: restate a casa il più possibile. Non recatevi in pronto soccorso. Chiamate i numeri di emergenza. Tutte cose che mio fratello , a mio avviso , ha fatto alla perfezione, al meglio delle sue possibilità.
C’è da dire che mio padre ha avuto un peggioramento rapido nelle 24 ore prima che chiamassimo i soccorsi, un decorso della malattia decisamente differente da quello di mia madre.
Da operatore sanitario, ti dico che io per prima non volevo che mio padre andasse in ospedale
Rimane però il fatto che alle prime avvisaglie dei sintomi dei suoi genitori, per molto tempo, nessun operatore o medico è andato prontamente a controllare i genitori di Cinzia. Gli ospedali era preferito evitarli, preferito inizialmente e caldamente suggerito nei vari decreti: “Chiamate il 118 e non recatevi al Pronto Soccorso”, ce lo ricordano ogni giorno nei vari spezzoni in televisione.
Di fatti, anche lei stessa ci riferisce che:
Se da una parte mi dite che in ospedale non devono andare, dall’ altra allora qualcuno deve recarsi a visitarli. A un certo punto a mio fratello non ha più risposto nessuno.
Il medico di base dei miei genitori era lui stesso in quarantena, i medici sostituti non conoscevano i miei genitori e davano indicazioni telefoniche. Hanno risposto e hanno fatto quello che potevano, però solo questo medico di guardia medica che ti dicevo è venuto a vederli fisicamente a casa.
Questo è successo in concomitanza dell’aggravarsi della sintomatologia, e poi abbiamo chiamato l’ambulanza. Ecco, in questa gestione sicuramente c’è stata una falla. Non so dire di chi siano le responsabilità , e non me la sento di dire che sarebbe andata diversamente per mio padre. Per carità. Però….ecco se posso muovere una critica è senza dubbio questa.