“Pacchianesimo” a Roma. Tour virtuale di ciò che non avremmo mai voluto vedere nell’Urbe
Nel corso dei secoli Roma ha attraversato tante correnti artistiche e di pensiero, dall’umanesimo al barocco (anzi barocchetto, quello romano si chiama così), dall’Arcadia alla metafisica, oggi nella Capitale impera il Pacchianesimo di cui ne è esempio l’immagine in testa all’articolo.
Deridevamo il funerale dei Casamonica, senza renderci conto che la pacchianità scorreva fluida impregnando l’Urbe. Prendiamo il rione Trastevere in particolare piazza San Giovanni della Malva e che ti troviamo? Una opera che è si d’arte, ma d’arte pacchiana: si tratta di una porchetta in travertino pronta per essere consumata; il titolo? “Dal panino si va in piazza” e l’autore manco voglio nominarlo. A detta della Presidente del Municipio I “La Giunta Municipale ha deciso di fare un passo in più sulla strada della rigenerazione del Centro, grazie a questo progetto che si propone, attraverso l’arte, di valorizzare ulteriormente alcuni dei luoghi riqualificati grazie al bando ’Roma sei mia’ … ” e giù una valanga di chiacchiere… tutte per giustificare un lavoro brutto e di deprecabile gusto. Se l’arte intesa dalla presidente della circoscrizione è quella rappresentata da ‘sta porchetta che il cielo ce ne scampi e liberi! Pochi monumenti hanno suscitato uno sdegno tanto unanime e nonostante l’autore ne abbia preso le difese imbandendo una serie di concettualizzazioni cervellotiche rimane il fatto che il povero animale di travertino fa ribrezzo a tutti. Pacchiano pure il tentativo di vandalizzare la malnata opera: è stata imbrattata con della vernice rossa dagli animalisti offesi dalla statua in stile Grand Guignol ma incuranti del vero delitto che s’era perpetrato: rovinare una piazza storica con cotanta bruttura. Adesso la porchetta pare condita col Ketchup. Meno male che è stata rimossa! Pensandoci bene mi vien quasi voglia di mostrarvi le bruttezze della capitale. Vogliamo fare un piccolo giro turistico un po’ alternativo? Che ne dite?
Se siamo andati a prendere un po’ di sole al lido della Capitale (Ostia, che ricordo è un quartiere della città Eterna), tornando per la via Cristoforo Colombo affronteremo il tratto finale di una salita che pare terminare, in prospettiva, proprio in mezzo alla costruzione del Palazzo dello Sport oggi Palalottomatica e il cui nome campeggia (in maniera pacchiana) proprio sulle finestre dell’opera architettonica. Un tempo, per coloro che arrivavano all’Eur dal mare, la vista era suggestiva finché t’arrivò Veltroni. E’ stato un sindaco intellettuale, gli davate un qualcosa di vagamente artistico per giocare e lui era tutto contento e così si divertì con l’Urbe: una intera città da intellettualizzare!… Cosa fece? Pensò di rovinare completamente lo scenario che vedeva il palazzo dello Sport come protagonista mettendoci davanti l’Obelisco Novecento, una sorta di punta di trapano in bronzo opera di Arnaldo Pomodoro (chapeau). Tornando dalla spiaggia a Roma, gli automobilisti, oggi, vedendosi parare davanti quel trespolone di 21 metri si grattano la testa domandandosi “ma a che serve?”. In realtà sarebbe una fontana ma è asciutta, secca come il deserto e piena delle crepe dovute all’incuria. All’inaugurazione Veltroni sottolineò che piazzale Nervi era il luogo ideale per l’ obelisco: “Perché segna l’ingresso alla città storica, che ormai ha allargato i suoi confini. Sono certo che questo monumento diventerà un ulteriore elemento di bellezza e di ricchezza per Roma, per questa città che dall’alto del suo passato continua a guardare verso il futuro“. Veramente quell’affare segnava l’ingresso alla periferia romana: al quartiere ostiense, alla Montagnola e alla Garbatella, anzi a dirla tutta pure a Tormarancio/a (secondo i gusti), quartiere una volta identificato col nome di Shangai e nel quale nessuno voleva entrare ma oggi dignitosissimo.
Sorpassato l’affarone a punta di trapano e scavalcato il laghetto artificiale dell’Eur immerso nel verde, ecco là stagliarsi, infelicemente, la “nuvola” di Fuksas. Se l’avessero fatto a Reggio Calabria l’avrebbero chiamata ecomostro. È un gigantesco scatolone di vetro trasparente adagiato su un prato vicino a un altro scatolone di vetro nero, messo, però, in verticale e buttato lì. Urlò Sgarbi dall’orrore ma siccome è uno che non sta nel coro il suo grido angosciato non ebbe seguito e l’architettura metafisica del quartiere Eur ne fu sfregiata per sempre. Anche Renzo Piano fece una cosa simile all’aeroporto di Osaka e a New York (Morgan Library), però, a dirla tutta, quelle che ideò erano strutture leggere, aeree, non due “cosi” che nulla hanno a che vedere con l’ambiente circostante e non si capisce a cosa diavolo possano servire. Si è detto che la Nuvola è destinata ad attività congressuali se non che a cento metri di distanza c’è lo storico “Palazzo dei congressi”. Poco più avanti, quasi difronte, nel quartiere bianco del marmo con cui è stato costruito e verde dell’erba dei prati e degli alberi in cui è immerso, si staglia la torre nera del grattacielo di Poste Italiane. Un vero cazzotto in un occhio che poi a vederlo non è così dissimile dal lavoro di Fuksas: è brutto uguale e magari sarebbe costato meno.
Lasciamoci ‘sta roba alle spalle e arrivati all’Obelisco Marconi ecco là, nel giardinetto che circonda la stele, una opera di Seward Johnson. C’è chi paragona l’artista al diamante della mitica pubblicità De Beers: è per sempre. Una volta che ti sei piazzata in casa una sua opera non te ne liberi più. Il monumento in alluminio rappresenta un gigante e proviene da una tournée che ha toccato le città di Siracusa, Viterbo e altri parchi comunali (che se ne sono felicemente liberati). Consiste di un polipesco (mi si passi il termine) insieme di arti che spuntano dalla terra assieme a un capoccione barbuto a bocca aperta. Il titolo è “The awakening” (il risveglio) ma i romani speravano che il gigante non riaffiorasse più dalla terra in cui era semisepolto e rimanesse lì sotto addormentato. L’opera fu rimossa dopo un po’ di mesi e tante risate: mai nessuno ne ha lamentato la sparizione.
Proseguiamo lungo la via Cristoforo Colombo fino alle mura Aureliane, oltrepassiamole ed eccoci in pieno centro storico. A sinistra le Terme di Caracalla dove, nei tempi d’oro della lirica romana, veniva messa in scena l’Aida con tanto di elefanti veri. Poco più avanti, a destra, porta San Sebastiano e a seguire via Druso con villa Palomba, la casa di Alberto Sordi, ora museo. Dirigiamoci dritti all’obelisco lateranense in piazza San Giovanni, poi piegando a sinistra immergiamoci in via Merulana, una sorta di splendido tunnel di olmi, diritto come un fuso, che si snoda tra palazzi umbertini fino a sfociare davanti alla basilica di Santa Maria Maggiore. Costeggiamola brevemente e dopo un centinaio di metri, percorsa via D’Azeglio, ecco la Stazione Termini.
Siamo giunti alla celebrazione del pacchiano, al brutto ma brutto: la statua di papa Giovanni Paolo II. Stando alla Cnn americana è tra i dieci monumenti peggiori del mondo dove occupa l’ottavo posto della classifica. Statua realizzata da Oliviero Rainaldi vorrebbe essere un omaggio al venerato papa polacco ma è stato un susseguirsi di polemiche e qualcuno addirittura ne ha chiesto la rimozione e non aveva tutti i torti. Un anno dopo l’inaugurazione furono apportati dei “ritocchi” all’opera, dalla posizione della testa al mantello ripiegato, dal basamento rialzato a un impianto di illuminazione ma sempre una cosa brutta rimane. Rainaldi lo scultore chiamò in causa Michelangelo Buonarroti a sua difesa: “Anche la cappella Sistina, ai tempi, fu criticata“. Vero, però, quella rimane l’opera di un genio dell’arte la cui incommensurabile bellezza, nel tempo, ha soverchiato le critiche, mentre la statua del povero papa a parer mio è quello che è: una sorta di tenda da spiaggia con sopra la capoccia del Santo Padre. Paragonarsi a Michelangelo mi pare un tantino azzardato… .
Siamo quasi al termine del nostro percorso tra le pacchianate e brutture romane. Percorrendo il lungotevere direzione Castel Sant’Angelo, superato l’incrocio con via Arenula, vi ritroverete a destra l’Ara Pacis che, oggi, rappresenta una irrimediabile ferita nel centro di Roma. Il monumento, un tempo, stava bene nel suo ambiente ed era fruibile a colpo d’occhio; in seguito, nonostante i tentativi dell’allora sottosegretario Sgarbi per evitare tale sconcio fu affidato il progetto di “inscatolare” il monumento all’architetto americano Meier (di cui Zeri diceva “conosce Roma come io conosco il Tibet dove non sono mai stato”).
La realizzazione sembra una pompa di benzina texana proprio nel porto di Ripetta e con questo nomignolo l’hanno soprannominata i romani. Tutti i maggiori architetti si opposero all’opera, da Fuksas ad Aymonino, da Portoghesi a Gregotti, da Krier a Muratore, da Cervellati a Marconi: un coro compatto di no ma la politica sa anche essere cafona e pacchiana e così la “stazione di servizio” si dovette fare volenti o nolenti. Se la “punta di trapano” all’Eur fu parto dell’estro intellettuale di Veltroni, l’inscatolamento dell’Ara Pacis è stata una botta d’ingegno di Rutelli il quale, lungi dal seguire gli insegnamenti estetici del nonno, scultore che regalò a Roma la splendida fontana delle Naiadi in piazza Esedra, ritenne bene oscurare il monumento augusteo, un tempo visibile dalla strada, sottraendolo alla città per restituirlo successivamente dentro a una stazione di servizio. I bellissimi bassorilievi sono ormai celati allo sguardo del passante! Immaginate di prendere la Torre di Pisa e infilarla dentro a un grattacielo di cemento: quello è l’effetto che fa oggi l’Ara Pacis.
Il pacchianesimo offrirebbe ancora tante “opere” da descrivere in questo tour delle bruttezze romane ma non voglio tediarvi oltre. Non me la prendo con gli artisti, me la prendo con coloro che hanno autorizzato la realizzazione di certe opere! Un saluto da un metro e mezzo.