“Quel giorno in via Caetani…”. Il racconto a Espressione24 di Maurizio Piccirilli, il reporter che fotografò Moro nella Renault Rossa
ROMA – Forse non se ne rese nemmeno conto quel pomeriggio Maurizio Piccirilli, al tempo giovanissimo fotoreporter, che stava facendo una delle cinque foto più ricorrenti e importanti nella storia d’Italia.
Forse è il contrario, ma il fatto è che Maurizio Piccirilli quel pomeriggio era lì, in via Caetani, dove solo i giornalisti e reporter con fiuto della notizia potevano essere. Oggi, a quarantadue anni di distanza da quel momento, Maurizio racconta a Espressione24 quegli istanti, sensazioni, parole, incontri, che hanno fatto da cornice a quel passaggio della storia da lui immortalato con la celebre foto che mostriamo in copertina. Un grazie a Maurizio col quale, chi scrive, ha avuto l’onore di lavorare, per oltre vent’anni, nella sua veste di capocronaca a Il Tempo e imparare moltissimo.
di Maurizio Piccirilli
«Era un mattino di maggio. 42 anni fa. Cinquantacinquesimo giorno dal rapimento di Aldo Moro. Un mese e mezzo trascorso a correre da una parte all’altra di Roma fino ad arrampicarsi sul lago della Duchessa, sui monti reatini. Ero agli inzi della professione. Le prime foto alle manifestazioni degli studenti, le cariche della polizia. L’incontro con gli «anziani» del mestiere: Osvaldo Restaldi, Elio Sorci, Mario De Renzis. Professionisti che a forza di consigli, bacchettate e qualche improperio ci insegnavano il mestiere. Così la passione diventava professione e si passava alla Cronaca nera: grande scuola di giornalismo e di fotogiornalismo. In quel momento di crescita e di assestamento del nostro lavoro fummo tutti travolti da quanto accadde il 16 marzo 1978. Quel giorno un commando di Brigate Rosse rapì il presidente della Dc Aldo Moro e uccise gli uomini di scorta in via Fani. Quel giorno entrambi arrivammo in quella stradina di Monte Mario e iniziammo a fotografare un episodio che entrava nella storia d’Italia.
Ecco, da quel giorno fu tutto un correre senza mai abbandonare la borsa con le macchine fotografiche: Moro poteva essere liberato in qualsiasi momento. In ufficio o a casa la radio era sempre accesa: quella sintonizzata sulla frequenza della polizia naturalmente. Ogni indizio poteva essere quello buono. Arrivò così quella mattina di maggio quando il caso, la fortuna e anche l’incoscienza mi permise di scattare quella foto divenuta la chimera per tutti i fotoreporter del mondo. In quegli anni abitavo con mia madre in una strada parallela a Via Caetani. Vivevo lì da sempre e conoscevo ogni angolo, ogni portone. Verso le 13 ero appena tornato a casa, sento delle sirene vicinissime, scendo e vedo che via Caetani dal lato di via delle Botteghe Oscure è bloccata da una folla di agenti e carabinieri. Ma questo è il mio rione. Queste strade e questi palazzi non hanno segreti per me. Così mi tuffo nel portone di via de’ Funari, ingresso secondario di Palazzo Caetani. Attraverso il cortile, salgo le scale e entro anch’io nell’appartamento con le piccole finestre che danno su via Caetani. Mi piazzo alla finestra, accanto a Gianni Giansanti e a Rolando Fava dell’Ansa. C’è anche un operatore della tv privata Gbr.
Stiamo lassù a pochi metri dalla Reanult rossa che è circondata dalla gente. Sembrano formiche impazzite. Un poliziotto, il funzionario di polizia Corrias, sbircia attraverso il finestrino e si mette la mano sul volto. In casa (è l’appartamento del custode del palazzo, si chiamava Pino), la televisione è accesa sull’edizione straordinaria del telegiornale. «Ci arriva in questo istante la notizia che il corpo dell’onorevole Moro è stato ritrovato in via Caetani», spiegano dal piccolo schermo. E noi siamo lì, puntiamo i nostri obiettivi verso la Renault. Arriva Cossiga, poi un sacerdote. Un poliziotto alza lo sguardo e ci punta contro la pistola, urla che dobbiamo andar via. Allora ci ritiriamo, restiamo in silenzio, aspettiamo. Se prima avevamo scambiato qualche parola («Sarà Moro o un barbone?». «Siamo solo noi questa è la posizione migliore»), adesso restiamo in silenzio. Arrivano gli artificieri e aprono con le pinze il portellone. Gli scatti delle macchine fotografiche si susseguono.
Appare una coperta. Un medico la toglie e appare il corpo di Aldo Moro come in un dipinto del Caravaggio. La folla di poliziotti, carabinieri e vigili del fuoco si accalca per vedere. Altri poliziotti li respingono. Scattiamo a raffica e ogni rullino finisce negli slip. Meglio stare sicuri ed evitare sorprese, c’è il rischio concreto che quando usciamo la Polizia ci sequestri tutto. Ora il cadavere del presidente della Dc ci appare in tutta la sua drammaticità. Il volto con una leggera ombra di barba viene illuminato dai flash della Polizia scientifica che sta facendo i rilievi. Intorno alla Renault rossa un cerchio di gente di guarda attonita la fine tragica del dramma messo in scena dalle Brigate Rosse. Fotografiamo ogni istante fino al momento in cui il corpo scompare nell’ambulanza dei Vigili del fuoco, diretta all’obitorio. A quel punto l’uscita da quell’appartamento è una fuga. Venni intercettato da Alfredo Passarelli, cronista de Il Tempo. «Hai fatto le foto a Moro?» mi chiese agitato. Alla risposta affermativa venni sollevato quasi di peso e portato sull’Alfetta del giornale che corre verso piazza Colonna, sede storica de Il Tempo. Entrai in camera oscura con Mario De Renzis ero eccitatissimo.
Non credevo a quello che ero riuscito a fare. Le foto finirono in prima pagina e così la mia vita si intrecciò con quella del giornale di Gianni Letta».