Roma la città dove anche la “monnezza” ha storia e reperti archeologici
ROMA – Si parla spesso di immondizia a Roma ma attenzione, quella della Capitale non è semplice immondizia ma una tradizione storica che affonda le radici nell’antichità.
Qual è una delle cose per le quali Roma è famosa? Mi direte: “Il Colosseo”, “San Pietro”, “il Tevere”… macchè Roma è spesso citata per la Cloaca Massima che è una fognatura e quindi dedita alla raccolta dell’immondizia che da duemila e cinquecento anni continua a servire la Capitale! Talmente bella era che si scomodò persino Dionigi di Alicarnasso che la descrisse come “opera meravigliosa tale da superare ogni descrizione“. Pure sul termine “immondizia” c’è da ridire: a Roma si chiama “monnezza”. I romani che vogliono parlare bene trasformano la parola “monnezza” in “mondezza”, in un termine, cioè, che significa esattamente il contrario. Pure sull’odore ci sarebbe da dire qualcosa. Roma puzzava. Non c’é il minimo dubbio. Qua e la, girato un angolo, preso un vicolo, accostato un muro, puzzava e secondo quanto e quale vento tirava, la puzza poteva anche arrivare lontano.
Pensate che l’accumulo dei cocci delle brocche e dei vasi rotti originò una collina artificiale alta 35 metri di oltre 53 milioni di anfore in terracotta buttati lì in epoca romana come resti dei trasporti che facevano capo al porto di Ripa grande detto “emporio”. Ad oggi costituisce un sito archeologico unico nel suo genere. Che vi dicevo? L’immondizia è storia a Roma, per questo l’accumuliamo! La montagna ha dato il nome a un quartiere di Roma: Testaccio da testae, cocci, in latino. Ma in quale città l’immondizia può dare il nome a un quartiere? Nell’Urbe, naturalmente.
Oddio l’atavica immondizia romana era causata non solo dalla noncuranza del popolo ma anche dalla gestione della stessa che era accettata dalle autorità preposte le quali la disseminavano sul territorio urbano. I rifiuti propriamente domestici erano buttati nelle strade, senza badare su chi potevano finire, come ricorda il poeta satirico Giovenale cui capitò di ricevere in testa il contenuto di un vaso da notte. A tal punto era questa abitudine che nel Digesto, la raccolta di leggi romane, era scritto che “…nulla dovesse tenersi esposto dinanzi alle officine e finalmente non si permettesse che fossero gettate nelle strade sterco, cadaveri o pelli d’animali”. Il divieto sarà ripreso negli statuti medioevali e la dice lunga sulla qualità della pulizia delle strade e della città.
Sapete come si raccoglievano i rifiuti nella Capitale a partire dal ‘700? La gente buttava i rifiuti dalla finestra, la mattina i condannati ai lavori forzati passavano e li raccoglievano. Immaginate nelle giornate di pioggia i liquami come scorrevano per le strade… .
A proposito di liquami, l’imperatore Vespasiano fu quello che introdusse l’uso dei bagni pubblici per urinare (cosa che legò il suo nome a questo antipatico ma utile ammennicolo). Siccome lo Stato lucrava su tutto, sapete che fine facevano le eiezioni liquide dei romani? Venivano vendute ai conciatori di pelle che usavano proprio l’urina per il loro trattamento.
Dal settecento in poi la cosa cambiò: sempre per strada si buttava l’immondizia e sempre la si depositava qua e là per la città ma con una differenza: esistevano gli editti del “Monsignore delle strade” Nel centro storico di Roma si contano ancora oggi 67 targhe oltre a una decina di divieti specifici in prossimità di chiese, fontane e palazzi. Nonostante le minacciate pene, molti continuarono a ignorare editti, lapidi e Monsignori illustrissimi.
Il problema dei rifiuti e del loro smaltimento, allora come ora, è sempre stato presente, e nel XVIII Secolo, siccome da quell’orecchio non ci sentiva nessuno si rese necessario rendere più “perentorio” il tono di queste targhe marmoree. Oltre al divieto, ora, riportavano le sanzioni per i trasgressori. Talvolta si aggiunse una pena corporale e nel caso si fosse accanto ad una Chiesa, anche la scomunica. Oggi queste targhe rappresentano una caratteristica Romana e c’è chi se le è fotografate tutte!
Immondizia significa topi. A Roma si chiamano “zoccole”, scusate la brutta parola, e raggiungono le dimensioni di un gatto, anzi i gatti ne hanno paura. Ad ogni romano ne spettano sette, immaginate con oltre tre milioni di abitanti quanti di questi graziosi animaletti ce ne sono in giro. Problematico ucciderli e sapete perché? Perché le loro carcasse, nelle fognature, scatenerebbero delle epidemie, quindi sono quasi intoccabili.
Ma perché non mettere in mezzo anche uno dei luoghi più importanti e decisivi d’Italia come Montecitorio? Ebbene lungi dall’essere offensivi, ma la nobile sede non aveva proprio origini eccelse anche se qualcuno voleva far derivare il nome “Montecitorio” dal termine “mons septorium”, il posto dove i cittadini erano chiamati a votare. Studi recenti ne fanno derivare l’origine dal termine “accettatorio” ad indicare la funzione di scarico dei rifiuti o più verosimilmente, di terra di riporto, cosa che ha creato col tempo un grosso cumulo (“mons“). Quindi anche il nome del luogo più sacro alla democrazia italiana, nobilita quel “qualcosa” la cui perenne giacenza, nella Capitale, è deprecata da tanti.
Non credevate che i rifiuti romani discendessero da tali nobili lombi vero? Forse è per questo che inconsciamente il moderno “cives romanus” tiene talmente a questi rifiuti di tanto antico lignaggio da volerseli tenere sotto casa o ad ogni cantone di strada.
Ma voglio farvi stupire. Non solo immodizia vagava per la Città Eterna. Anticamente il luridume a Roma toccava vertici ineguagliabili: c’era chi approfittava di luoghi appartati per espletare sul suolo pubblico i propri bisogni corporali. Fuori le mura della città, dove non esisteva il pericolo di essere visti, capitava che la funzione fisiologica fosse espletata al riparo di una tomba eh già quando il corpo chiama, chiama!
Fatevi una passeggiata sulla via Appia Antica: ci sono ancora visibili le epigrafi funerarie in marmo con frasi di ammonimento contro i “minctores” e i “cacatores” (a voi il piacere della traduzione), spesso vere e proprie maledizioni contro i profanatori ai quali era augurato lo spalancarsi delle porte degli inferi.
Oggi va di moda la raccolta differenziata, anzi la stiamo scoprendo ma, nell’ottocento veniva già effettuata come ci testimonia Gioacchino Belli. In un suo sonetto uno stracciarolo, spiega come sia difficoltoso “er mett’a parte co un’occhiata li vetri e li ferracci, a nun confonne mai carte co stracci, e a divide li stracci da le carte”. La separazione dei rifiuti è sempre stata vissuta dai romani come una impresa dolorosa e affaticante. Nulla di nuovo sotto al sole, quindi, per l’Urbe: l’immondizia c’era allora e c’è oggi, con la differenza che all’epoca coloro che facevano “monnezzaro” rischiavano la prigione o la berlina. Giusto o ingiusto? Difficile dirlo perché il romano, in fondo, non è mai cambiato ed è sempre stato tetragono al trattamento dei suoi rifiuti tanto da far ritenere che la sigla SPQR non sia più l’acronimo di Senatus Populusque Romanus, ma quello di “Sono Porci Questi Romani”.
A Roma non lo facciamo per cattiveria ma per snobismo. Il romano “de Roma” ha sulle spalle oltre duemila anni di storia è quasi uno stanco gladiatore che ne ha viste tante, ha steso la pax romana, è arrivato con le legioni sino in Gran Bretagna e ora sembra dire tra sé e sé: “Ma te pare che me devo puro preoccupà de la monnezza? “ L’immondizia nell’Urbe è praticamente storia, per cui quello che tracima dai cassonetti altro non è che nobiltà per antico lignaggio: quasi vale la pena raccoglierne un po’ e metterla come un complemento d’arredo in casa. Dite di no? Avete ragione ma pensate che pure l’immondizia nell’Urbe è storia. Un saluto a tutti.