Roma scioccata e inconsolabile ha salutato il suo unico “Re”. «S’arivedemo Giggi!»
Mentre a Roma, scioccati dalla perdita di Gigi Proietti, cincischiamo sul cosa fare in suo onore (intanto abbiamo proiettato sul Colosseo una sua foterella striminzita che ha mandato in bestia tutta la cittadinanza) ecco che dall’Abruzzo, nasce l’idea di un tributo non solo all’artista ma al ricordo della sua attività di direttore del Teatro Stabile dell’Aquila: intitolargli la Sala Rossa del ristrutturato Teatro comunale. Da romano ringrazio ma sempre da romano, gonfiando il petto orgogliosamente, non posso rimarcare che, essendo l’edificio dedicato dal 2007 a Nazzareno De Angelis, mi sembra come se si volesse rifilare al Maestro Proietti una cosetta di seconda mano, anzi manco tutta, una fettina di una cosa appartenente ad un altra persona. A dirla con una sua frase “Vivi, lascia vivere ma soprattutto… nun te fa pijà per c**o”. Una sala di qualsiasi complesso, bella che sia, forse è più indicato dedicarla, chessò, a un finanziatore, un benefattore, una figura locale di particolare rilevanza, a chi gli ha dato lustro, ma nel nostro caso, considerata la levatura artistica del Maestro, proprio non sta: piuttosto meglio non dedicargli nulla che qualcosa di recupero (non fateci caso io sono un vecchio brontolone).
Voglio essere onesto fino in fondo perché qui nella Capitale qualche “gaffe” s’è pure fatta: la A.S. Roma vuole ricordarlo, assieme alla Regione Lazio, realizzando un grande murale di 11 metri per 15 su una facciata del lotto in cui Proietti ha vissuto la sua infanzia in via Tonale, nel popolare quartiere del Tufello. Il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, che non perde mai l’occasione di tacere, ha detto: “È il nostro modo per ringraziare uno dei volti più apprezzati dello spettacolo italiano”. Bel modo… Proietti è uno dei tanti a cui dedicare un disegnino di quelli dei quali la Garbatella, Tor Marancio e altri quartieri romani sono strapieni: ce n’è pure uno enorme alla Garbatella dedicato a Totti. Certo che se questo è il modo di ringraziare e onorare la morte di un artista dalla levatura nazionale… .
Tornando a noi, la memoria mi corre ad una strana coincidenza: Ettore Petrolini, di cui si riteneva Proietti esserne il naturale erede, ebbe i natali in vico del Grancio, nei pressi di Via Giulia, mentre il nostro compianto Maestro in via di Sant’Eligio a due passi di distanza, e questa strana vicinanza, quasi una parentela, se la porterà appresso per sempre. Entrambi, pensate, morirono in occasione di una festività: Petrolini il giorno in cui si onorano i patroni di Roma San Pietro e Paolo e lui, Gigi, il due novembre la ricorrenza dei morti. Il destino lo segnò sin da subito: nacque il due novembre e il due novembre è morto! Raro esempio di coerenza: tirando le cuoia volle fare la sua ultima mandrakata. Qui termino la sua biografia perché, sapete, per i romani parlare di Proietti è difficile: lo sentivamo nelle viscere, era uno di noi che veniva dal Tufello vale a dire dal popolo. Che altro dobbiamo dire?
Coloro che non sono dell’Urbe, non possono avere captato appieno le sue sfumature, le sue espressioni, la sua gestualità, le sue battute che hanno sempre sotteso una ironia sorniona, difficilmente percepibile da chi romano non è. Faccio un esempio: la mandrakata. Molti non lo sanno ma il termine deriva da un vecchio fumetto di Stan Lee il cui protagonista era un mago, per l’appunto Mandrake, che, con la mano protesa in avanti, eseguiva le sue magie. A Roma soprannominare qualcuno col termine di Mandrake o una sua furbata come “mandrakata” è uno sfottò, una mezza presa in giro. Il personaggio ricoperto da Proietti in “Febbre da Cavallo”, simpaticamente cialtrone, che viveva di piccoli espedienti non sempre andati a buon fine, mandrakate, insomma, diversamente non poteva essere soprannominato.
Non posso che ricordare la sua continua presenza in mezzo alla gente e al riferirsi a loro: negli anni guidò un laboratorio al teatro “in Portico” presso la chiesa di Santa Galla che, per chi non lo sa, è a due passi dalla piazzetta de “I Cesaroni” alla Garbatella e da quel laboratorio mosse i suoi primi passi Rodolfo Laganà. Coloro che, come me, hanno diverse primavere sulle spalle, non possono dimenticare, inoltre, nel programma radiofonico della Rai “Gran Varietà” il personaggio del suo mago della Garbatella il quale, con lo slogan “taja ch’è rosso qui l’affare se fa grosso!” gabbava con i suoi riti da cialtrone i poveri creduloni. Tanto caro è stato al quartiere che alla notizia della sua morte da tutti i balconi è scaturito un lungo applauso e la città che lo piange ha proclamato il lutto cittadino per il giorno del funerale.
Non so come gli fu affidata la parte di San Filippo Neri nello sceneggiato dedicato al santo, ma mai attore fu così azzeccato! Nel quartiere Garbatella è stato un evento memorabile. “Pippo Bono”, come il Santo era chiamato, qui è popolarissimo; c’è la parrocchia a lui intitolata e l’oratorio che per anni è stato il rifugio della gioventù della zona ed il punto di riferimento di tutti gli abitanti. Gigi Proietti, in un’intervista tenne a precisare: “Forse non tutti sanno che San Filippo è stato il creatore dell’oratorio, ma non dedicato soltanto a ragazzi e ragazzini, molto più allargato a gente di altra estrazione, altra età, a vecchi, infermi e invalidi”.
La “romanità” dell’artista è indubbia, l’ho sempre invidiata perché lui “spalmò” la vita su tutta la città: Nacque vicino a via Giulia, una delle vie più “centralissime” di Roma, dove, tra l’altro, abitò anche il giovane Verdone, si stabilì in Via dei Santissimi quattro, vicino al Celio, poi nella zona popolare del Tufello e frequentò il liceo classico Augusto in via Appia Nuova a due passi dalla zona dell’Alberone. A proposito della Città Eterna ebbe a dire: “Ma allora Roma è sintesi de che? A coso… Roma è sintesi de tutto.“ Capite perché i romani lo hanno adorato e ancora lo amano? Tra lui e un grande come Alberto Sordi c’era una differenza fondamentale: Se Albertone fu l’orgoglio della Capitale, Gigi era, nel sentire collettivo, il fratello di tutti.
Il suo ricordo è un po’ ovunque, si potrebbe quasi fare un tour dei luoghi che lo hanno visto, iniziando dalla storica Via Giulia dove abitò e condivise con Petrolini e Verdone. Una curiosità che sembra un destino: nella via c’è la seicentesca chiesetta di San Filippo Neri, santo che Gigi impersonò magistralmente in una fiction televisiva. Se, invece, vi viene voglia di visitare la chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, ricordate che fu uno dei set del film Tosca nel quale ricoprì la parte di Mario Cavaradossi e ancora più in là Castel Sant’Angelo altro set dello stesso film. A Villa Borghese ecco là il “Toti Globe Theatre” di cui fu direttore (e a lui oggi dedicato) e ancora Campo de’ Fiori dove abitò per qualche tempo e ancora il Celio. Via di Fontanella Borghese dove la mettiamo? Già perché ‘sta cosa non è conosciuta dai più ma qui esisteva un ristorante, “Il Leggìo”, di sua proprietà aperto con la speranza di vedervi i colleghi, ma, per dirla con le sue parole, “gli attori nun so’ mai venuti”. Ancora, in via Merulana, a due passi dalla Basilica di Santa Maria Maggiore ecco il Teatro Brancaccio “dove prima c’erano le ragnatele” e oggi è uno dei teatri più importanti di Roma.
Era “innammorato” dell’Urbe. Raccontò ad un giornale: “Il piacere che avevo di girare una volta per Roma con un grande amico, che era Gigi Magni, era quello di passeggiare con una delle guide più preziose che la città potesse avere, addirittura sapeva tutto di ogni sampietrino, credo che conoscesse anche le date delle buche…”. Ma poi sapete cosa faceva di lui un romano vero? Aveva vissuto la vita del popolo. Mi ha colpito uno dei suoi ricordi: quello della tradizione romana che riguardava i “fagottari”. Chi erano? Erano le famiglie meno abbienti che preparavano cibi da portare via e consumare nelle “fraschette”, sorta di osterie periferiche dove si mangiava la roba portata da casa ma si beveva il vino locale. I cibi (spesso fettine panate o pomodori col riso), contenuti in piatti e teglie, erano trasportati dentro a grossi strofinacci da cucina annodati per le cocche, dei fagotti, insomma. Gigi non si vergognava di raccontare questa abitudine della sua famiglia. Non era uno snob, tutt’altro: lo era alla maniera di Petrolini, “al contrario”: prendeva in giro il modo affettato di porsi della “gente bene” strizzando l’occhio a quella comune.
Nell’ultimo suo viaggio a fargli compagnia sarà una copia del “Messaggero” del 3 novembre, quella con i servizi sulla sua scomparsa: la famiglia l’ha posta nel feretro perché Gigi teneva molto a questo quotidiano, “storico” giornale romano.
In vita raccomandava sempre, scherzando, alla sua addetta stampa: “Quando muoio, famme mette’ in prima pagina sur Messaggero e si nun ce riesci vengo e te tiro i piedi”. Embè Gigi ce sei riuscito a finì sur Messaggero e mo’ noi stamo qui a piagne ppe’tte. Perdonate la mia commozione. Termino qui, un saluto da ‘ndo ve pare.