Tornano i “Fagottari” sulle spiagge del Ferragosto: le famiglie anni ’50 e ’60 che non potevano fare le vacanze. Come oggi…
Ho narrato di Roma, dei suoi fantasmi, delle antichità e opere d’arte. Una cosa non ho mai raccontato, ed è come la famiglia media romana affrontava il ferragosto negli anni cinquanta e sessanta. Era uno spettacolo degno del miglior cinema neorealista.
Quindi non vi trascinerò nella storia del ferragosto, delle sue origini prima romane e poi fasciste ma solo di fatti reali e vissuti dai romani negli anni della ripresa.
All’epoca andare in vacanza era privilegio di pochi. Ci andavano i ricchi imprenditori, i liberi professionisti, i negozianti abbienti. E la gente comune? Beh quella si arrangiava con Ostia, la spiaggia di Roma.
Si era quasi al boom economico e la macchina l’avevano, ormai, in molti. La mia famiglia, ad esempio, si spostava con la Giardinetta Belvedere, la storica Fiat 500 C. Mio zio era un panificatore e la usava per consegnare il pane fresco. Quando la vettura non era in servizio diventava il veicolo di svago familiare dove tutti, ma proprio tutti, ci si “intruppavano” dentro per raggiungere, la domenica, chessò, un posto fresco ai Castelli o il Lido di Roma.
Il ferragosto romano era molto simile, nella sua preparazione allo sbarco in Normandia e aveva inizio diversi giorni prima della fatidica data: il quindici di agosto!
I FAGOTTARI
Erano i protagonisti del Ferragosto. All’epoca erano così chiamati coloro che si recavano al mare o in collina portandosi appresso le vivande in un modo un po’ insolito. La famiglia ferragostana avvolgeva le teglie, le casseruole, le insalatiere contenenti le vivande in ampi canovacci quasi sempre a quadrettoni, raccolti e legati per le quattro cocche a formare un fagotto, da cui il termine.
L’uniforme del fagottaro
Il fagottaro aveva una sua divisa.
Gli uomini indossavano la classica canotta bianca con i calzoni corti. Non i bermuda, non si conoscevano. Erano proprio pantaloni senza i tubi per le gambe. I piedi, avviluppati in “pedalini” (calzini corti) e gli intramontabili sandali incrociati. La testa era protetta dal sole grazie a un fazzoletto con i quattro angoli annodati a formare una sorta di copricapo. Sotto alle braccia i simboli della vacanza: un ombrellone chiuso ed una sedia a sdraio.
La femmina del fagottaro era paludata con un ampio “zinalone” (sorta di grembiulone) chiuso sul davanti da una lunga fila di bottoni. Calzava zoccoli di legno o zeppe di tela, a volte ciabatte. Le borse da mare erano sostituite dai fagotti.
LA PARTENZA
La povera giardinetta, era carica di vettovaglie, ombrelloni, tavoli pieghevoli e sedie e per “tavoli pieghevoli e sedie” intendo quelli da osteria perché le raffinate miniaturizzazioni odierne non esistevano, il tutto legato saldamente sul tettuccio.
Mancavano anche le borse termiche e allora, chi aveva spazio, si portava appresso un mastello con dentro una colonna di ghiaccio nel quale riposava, al fresco, il vino, l’acqua e il cocomero. Il tutto ricoperto con strofinacci per evitare un eventuale gocciolamento.
Il nostro eroe di solito partiva in carovana con la sua tribù, due o tre vetture tra Fiat 600, 1100 e giardinette, tutti parenti, tutti allegri e vocianti. In macchina, soprattutto se si possedeva una “familiare”, almeno cinque persone più i bambini che venivano posti nel vano di carico. Quando si avvistava una macchina della polizia il guidatore esclamava rapidamente: “Giù! Giù!” e i piccoli dovevano abbassarsi per non farsi vedere ed evitare la multa e così pure i passeggeri in esubero; più di quattro persone non potevano viaggiare in una autovettura.
Lo sbarco
Sbarcavano vocianti dalle loro auto, chi ne possedeva una, o dal trenino, i meno abbienti. Questi ultimi avevano saturato lo spazio dei vagoni non solo con le loro chiassose presenze ma anche con le decine di involti di cui sopra, pieni di libagioni.
Arrivati alla spiaggia libera, le auto esplodevano proiettando fuori tutto il loro contenuto umano. Bimbi vocianti con sandaletti, cappellini e secchielli che scappavano di qua e di là inseguiti dalle madri urlanti, zii che estraevano il nonno o la nonna dalla macchina tirandoli per un braccio, accompagnando l’operazione con un cantilenante: “uno, due, tre… Aaalèèèèè”, mentre i vecchi, dal canto loro, di rimando, con voce malferma esclamavano un pietoso: “Ahio, Ahio, ve possin’ammazzà… me fate male!”.
Si parcheggiava la macchina (quando c’era il posto) al riparo dal solleone in parcheggi coperti da incannucciate. Qualcuno, cofano aperto, già sbocconcellava un panino. Come sempre il vento sulla spiaggia alzava la sabbia. Dietro le dune, centinaia di ombrelloni disseminati in ordine sparso. D’altro canto è la spiaggia libera di Castel Porziano mica uno stabilimento dove tutto è in ordine e ben allineato.
La conquista del posto al sole
Partiva dall’autovettura, la carovana, in fila, come tanti portatori sherpa. In testa gli esploratori dovevano adocchiare un posto vicino al bagnasciuga per acquartierare la truppa là dove si godeva maggior frescura. Appena trovato il luogo, così come gli astronauti sulla Luna, piantavano il palo (degli ombrelloni), quale simbolo di possesso del territorio e ne facevano sbocciare le cupole multicolori.
Di lì a poco arrivava il resto del gruppo che si arrestava al limitare della spiaggia. I componenti guardavano in tutte le direzioni per avvistare gli esploratori i quali, dal canto loro, si sbracciavano strepitando per attirare la loro attenzione:
–Marì, Marì!-
-Nandooo! –
-Augù!-
-Stamo quaggiùùù!- .
La famiglia si acquietava spargendo, sotto gli ombrelloni, le suppellettili che avevano portato. Intorno ora campeggiavano tavoli con sedie, la “bagnarola” col pezzo di ghiaccio e le bevande, asciugamani prendisole, sandali mezzi infilati nella sabbia. Dalle stecche dell’ombrellone pendevano, come tanti salumi ad asciugare, costumi e orologi. L’immancabile radiolina strillava le stesse canzoncine di tutte le altre intorno: c’erano solo due canali radiofonici e unicamente trasmissioni in onde medie.
IL PRANZO
Il pranzo di Ferragosto era rigorosamente cucinato a casa, anche perché andare al ristorante non si poteva: troppo fuori portata del portafogli.
Tutto ruotava attorno al principio secondo il quale in spiaggia bisognava portarsi i viveri “pe’ magnasse ‘na cosetta”. In realtà era un ammasso enorme di vivande che avrebbe stroncato il fegato del Pantagruel di Rabelais.
Lo spuntino prevedeva tipicamente, per prima portata, fettuccine col sugo di “rigaje de pollo”. Siccome erano state cucinate alla mattina, avevano preso, ormai, la forma dell’insalatiera nella quale erano contenute. Se veniva messo il contenitore sottosopra sarebbe scivolato nel piatto uno “zuccotto di pasta” tanto s’erano incollate. A seguire le lasagne.
Era d’uopo una bella teglia di pomodori col riso con patate al forno, fettine panate (c’è chi le chiama cotolette, ma le fettine romane sono enormi), una frittatona ripiena con quel che capitava e polpette. Non poteva mancare il classico dei classici romano: il pollo con i peperoni, oggetto di una indiscriminata, finale, scarpetta. Si beveva il vino dei Castelli contenuto nei bottiglioni oppure l’Idrolitina. Questa bisognava prepararsela da soli: si prendeva una bottiglia di quelle col tappo ermetico, la si riempiva d’acqua e si versava dentro una bustina di questa magica polvere, lesti a tapparla, la si agitava: l’acqua diventava frizzante.
SIAMO ALLA FRUTTA
Per terminare, il cocomero. Qualcuno aveva scavato una buca sulla battigia e ce lo aveva seppellito dentro per tenerlo al fresco, poi, puntualmente non trovava più il posto dove lo aveva… tumulato.
La merenda era cosa più leggera: Cirioletta con la “mortazza”, con la frittata, o con la sempiterna fettina panata. Rappresentavano il panino tipico romano: un etto di pane riempito di tutto! Al ritorno, caldo e code sulla via Cristoforo Colombo, l’arteria che unisce il Centro della Capitale con Ostia.
Oggi si assiste al ritorno dei fagottari. Utilizzano moderne attrezzature da campeggio, tutte molto funzionali: frigo portatili, tavolini pieghevoli con seggioline incorporate, thermos, talvolta fornelli da campeggio. Sono più distinti e meno popolani da chi li precedeva tant’anni orsono, ma una cosa li accomuna: “stanno senza una lira” sennò se ne sarebbero andati a Ibiza.
Un saluto da un accaldato metro e mezzo di distanza.