Via Tasso, il covo delle torture delle SS di Priebke. La storia di Jole Mancini la partigiana romana che sconfisse i “crucchi”
Ma quale “Gerusalemme Liberata”, “Roma occupata” avrebbe dovuto cantare nella sua opera Torquato Tasso. Qualcuno si chiederà a cosa è dovuto questo inizio d’articolo ed è subito spiegato.
A Roma, vicino a Piazza Dante, di fronte al palazzo che fu fatto erigere da Quintino Sella e di proprietà delle Poste Italiane c’è una stradina che si chiama Via Torquato Tasso, meglio nota con la semplice denominazione di Via Tasso. Il Nome della strada fa accapponare la pelle di ogni buon romano al solo nominarla. Un anonimo portoncino celava la sede dell’ufficio del capitano delle SS Herbert Kappler, e della polizia al suo comando. Dopo l’occupazione militare tedesca di Roma, l’edificio fu destinato a sede della SIPO, in tedesco Sicherheitspolizei (Polizia di Sicurezza) che poi sarebbe la Gestapo, alla cui guida fu destinato sempre Kappler, il quale siccome era una brava persona fu promosso al grado di tenente colonnello: Una parte dell’edificio fu adibito a caserma e uffici delle SS mentre l’altra adattata a carcere.
I tedeschi da persone ordinate quali erano avevano provveduto a ristrutturare la palazzina. Nella parte destinata a carcere, al pianterreno ed al primo piano, collocarono i magazzini, la fureria, l’ufficio matricola e l’archivio, mentre quelli che erano gli appartamenti dal secondo al quinto piano furono trasformati in celle, applicando grate in ferro alle porte e murando le finestre dall’interno lasciandole con gli avvolgibili abbassati in modo da non dare nell’occhio. I ripostigli furono mutati in celle di segregazione, mentre le altre camere ospitavano i reclusi e siccome erano molti li facenvano dormire sul pavimento. Disattivato l’impianto elettrico le celle ricevevano un po’ di luce e d’aria esclusivamente dai sopraluce delle porte dentro agli appartamenti. Il pasto, uno solo, arrivava dal carcere di Regina Coeli e non era certo degno di un gourmet: una brodaglia con pezzi di patate e verdure “servita” nella gavetta in dotazione, accompagnata da due panini. Non era consentito leggere né conversare tra detenuti e la violazione di tali norme comportava pene durissime.
Che si faceva là? Intanto i detenuti erano sottoposti a interrogatori a base di torture, allo scopo di ricevere informazioni su nascondigli, nomi e piani della Resistenza. Quando avvenne la liberazione di Roma, i bravi crucchi scapparono coraggiosamente a gambe levate, abbandonando l’edificio talmente di corsa da lasciare sotto chiave alcuni prigionieri. Tra questi anche Arrigo Paladini. Ne voglio fare menzione. Fu interrogato ventiquattro volte personalmente da Kappler e Priebke, perché lo consideravano una spia del nemico e un prigioniero importante; ogni interrogatorio finiva a botte e ossa rotte. Alle torture si aggiunsero quelle psicologiche: se non avesse parlato avrebbero ucciso suo padre Eugenio, colonnello catturato sui Balcani e deportato nel lager di Meppen.
Nel 1950 la principessa Josepha Ruspoli in Savorgnan di Brazzà, proprietaria dell’immobile, siglò un atto di donazione allo Stato di quattro degli appartamenti che erano stati impiegati come carcere, affinché fossero destinati ad ospitare un “Museo storico della lotta di Liberazione in Roma”. La realizzazione del museo fu curata dal direttore della Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte, Giulio Stendardo, ex membro del CLN di Modena. Successivamente fu curato proprio dal professor Arrigo Paladini. I luoghi più impressionanti e suggestivi del Museo sono le celle n.2 del secondo piano e n.11 del terzo, usate dai tedeschi come celle di segregazione. Si possono ancora vedere, protetti da lastre trasparenti, i graffiti tracciati, anche con le unghie, dai prigionieri: un calendario dei giorni trascorsi in cella per non perdere la cognizione del tempo, frasi dai toni forti (“Sottotenente Arrigo Paladini condannato a morte“) che lasciano immaginare dello stato d’animo dei reclusi, frasi di sfida (“La morte è brutta per chi la teme“), di incitazione (“Italia risorgi!”) fino a vere e proprie lettere destinate ai propri cari.
A titolo di memoria ricordo che nella cella n° 5 fu recluso il colonnello del Genio Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, capo del Fronte Militare Clandestino, fucilato alle Fosse Ardeatine (durante la detenzione gli furono strappati i denti e le unghie dei piedi). Qui è conservata la bandiera bianca con la quale il colonnello attraversò le linee durante la sfortunata battaglia di popolo per la difesa di Roma per trattare con il Feldmaresciallo Albert Kesselring la resa in cambio della concessione dello status di “città libera” e “città aperta” a Roma, naturalmente accordo tradito dai tedeschi non appena concluso.
Permettetemi ancora ricordare alcuni nomi di persone “ospitate”. Il generale dell’aereonautica Sabato Martelli Castaldi, nome di battaglia “Tevere” che, prima di essere ucciso alle Fosse Ardeatine, riuscì a scrivere sul muro della cella il proprio testamento spirituale: “Quando il tuo corpo non sarà più, il tuo spirito sarà ancora più vivo nel ricordo di chi resta. Fa’ che possa essere sempre di esempio”. Il sindacalista Bruno Buozzi, fucilato alla Giustiniana, l’atleta centometrista e medico chirurgo Manlio Gelsomini, il presidente della Corte Costituzionale e più volte ministro della Giustizia, Giuliano Vassalli.
Ricordiamo ancora Gioacchino Gesmundo che insegnava storia e filosofia al liceo Cavour di Roma. Era pugliese, di Terlizzi. Durante l’occupazione nazista, fece della sua casa un centro nevralgico per il Comitato di Liberazione Nazionale fino al suo arresto. Infine don Pietro Pappagallo l’unico prete a morire alle Fosse Ardeatine (ricordate il prete di Roma città aperta?). A farlo catturare fu un certo Gino Crescentini, un militare italiano che, ricercato come disertore dopo l’8 settembre 1943, fu accolto nel convento dei Santi Cosma e Damiano. La sua gratitudine fu tale da denunciare l’opera di don Pappagallo. Nelle carte processuali si legge che “fu spinto alla delazione dall’avidità del guadagno”
Se capitate a Roma venite a via Tasso, magari dopo aver visitato la basilica di san Giovanni o mentre vi dirigete verso i fori imperiali, non è difficile arrivare qui. Portate i vostri figli e concedetevi un momento di raccoglimento per meditare su ciò che è stato. Vale la pena visitare il museo, ve lo consiglio! Portateceli i giovani per far loro meglio comprendere cosa accadde una settantina di anni or sono (ieri l’altro, praticamente). Me lo fate esternare un pensiero ? Ma cosa diavolo avevano i tedeschi per comportarsi a quel modo, con tanta ferocia e cattiveria?
Scrivendo di via Tasso mi sovviene una donna: Jole Mancini che oggi ha 101 anni: manco i tedeschi l’hanno avuta vinta con lei e li ha seppelliti tutti! Adesso spiego, a coloro che non la conoscono, chi è questa signora. Jole Mancini era la moglie del partigiano Ernesto Borghesi, membro del GAP. Per giorni fu interrogata al fine di scoprire dove fosse il marito che nel frattempo avrebbe dovuto essere recluso nel carcere di Regina Coeli ma dal quale, in realtà, era fuggito. Tra le SS che la torturarono in via Tasso c’era anche quello che passò alla storia come “il boia delle Fosse Ardeatine” Erich Priebke. Jole, negli anni della della Seconda Guerra Mondiale, distribuiva volantini e consegnava munizioni ai compagni e fungeva da collegamento con il gruppo romano guidato da Calamandrei. Era novella sposa: aveva sposato Ernesto da appena un mese quando venne arrestato durante un fallito attentato a Vittorio Mussolini, secondogenito del dittatore. Ernesto riuscì ad evadere da Regina Coeli grazie a un falso ordine di scarcerazione fornitogli da Sandro Pertini e trovando rifugio nel soppalco della bottega del padre di Jole. Lei, però, fu arrestata ed ecco il suo racconto “Arrivarono nel bel mezzo della notte. Dopo aver negato la presenza di mio marito in casa, fui portata nella piazza. Attesi per 20 minuti. Ero come paralizzata, gelata“.
La donna fu portata in Via Tasso, perquisita e interrogata. Sottoposta a tortura: “Dopo quattro ore stavo per svenire, così smisero. Per tutto il tempo tenni un punto fermo. La versione: Ernesto è a Regina Coeli“. Quando la portarono nella cella, narra. “Mi diedero un cucchiaio e una ciotola di legno e mi lasciarono al terzo piano, in una stanza con tante donne, eravamo almeno 15, sedute per terra. Dopo qualche giorno sentimmo odore di bruciato. Erano i cannoni. Gli americani. Sentii tanti rumori. Poi i tedeschi ci fecero scendere e io capii che ci stavano portando con loro per fuggire. Una parte dei reclusi salì su un primo camion. Insieme ad altre donne, io fui fatta salire sul secondo. Ma quel camion non partì. Rividi mio marito il 7 giugno, tre mesi dopo il matrimonio “. Il guasto al motore del veicolo fu la salvezza di Jole perché i prigionieri, fatti scendere dall’autocarro, furono rimessi nelle celle, dove attesero fino all’alba per essere, successivamente, liberati dai soldati americani. Prosegue il suo racconto “Scoprimmo poi che i prigionieri del primo camion erano stati fucilati. Con il metodo nazista: un colpo alla nuca“. (li uccise a La Storta, vicino Roma, un anziano ufficiale delle SS di nome Hans Kahrau). Tra loro, proprio Bruno Buozzi.
Termino l’articolo con le sue parole durante una intervista al giornale “La Stampa”: “Oggi i giovani non sanno, sono terrorizzata da quello che sta accadendo. Sono anche amareggiata e triste. Spero che qualcuno ancora creda nella nostra lotta altrimenti inizio a pensare: chi ce l’ha fatto fare di rischiare la nostra vita piena di entusiasmo? Per che cosa abbiamo lottato? Non per questa l’Italia di oggi“
Un saluto da un metro e mezzo.